Calcio

Europei 2021, a Wembley si è chiuso un ciclo di storia per la Sampdoria

La vittoria europea della Nazionale italiana ha regalato emozioni inattese, insperate, indescrivibili a tutto il paese. E ha un senso particolare per chi, da sempre, è un sostenitore della Sampdoria. Confesso che lo sono. E il lettore può chiudere qui, se ritiene questo post giocoforza fazioso, perché parlo di Sampdoria. Fazioso lo sono per forza, pur avendo giocato un paio di volte con la maglia del Genoa nel vecchio Marassi, sulle sponde del torrente Bisagno. Ero un “pulcino” di quell’antico club, che si vanta di essere più inglese che italiano. Ma sono abbonato alla Sampdoria dall’età di dodici anni. Prima, ero talmente piccolo da poter entrare gratis, sotto l’ala di mio padre.

Mancini and Vialli did as much as anyone to shape Italian football in the 1980s and 1990s”, scrive Andy Gallagher nel lungo, esauriente articolo pubblicato qualche giorno fa su These Football Times e ripreso dal Guardian. Un riconoscimento straordinario, se proviene da giornali britannici di alto profilo. Gli inglesi si ritengono, a ragione, i moderni inventori di questo sport. Con assai meno ragione, cultori del fair play.

Per Vialli e Mancini e tutti i sampdoriani la ferita, che si era aperta nel vecchio Wembley, si è davvero chiusa solo domenica 11 luglio 2021 nel nuovo Wembley. Mancini e Vialli, Lombardo, Evani, Nuciari e Salsano e perfino Battara: c’erano tutti, calciatori rimasti nel cuore dei baby boomers sampdoriani che mai avrebbero sognato una Sampdoria da scudetto. E che, ascoltando l’intervista di Roberto Mancini a fine partita, hanno ancora la Sampdoria nel cuore e si sono commossi.

La ferita non riguarda solo la sconfitta, immeritata, nella finale di Champions tra Sampdoria e Barcellona del 20 maggio 1992. L’Italia calcistica sprecò questi due talenti, assieme ad altri talenti sampdoriani dell’epoca. Un archetipo del paese che, da 30 anni, scarta i propri talenti in ossequio alla mediocrità, alla ignavia, alla invidia, alla genuflessione verso i cosiddetti, identificabilissimi, poteri forti. La Sampdoria del presidente Mantovani, ancora vivo nel ricordo del commissario tecnico della Nazionale, era l’unica grande squadra composta da giocatori italiani: Pagliuca, Mannini, Pellegrini, Vierchowod, Lombardo, Pari, Cerezo, Invernizzi, Dossena, Mancini, Vialli. Cerezo era il solo fuoriclasse straniero, già avanti con gli anni e scartato per presunta obsolescenza calcistica dalle grandi. C’erano anche altri due stranieri, Katanec e Mychajlyčenko, ma ebbero un ruolo marginale nella vittoria dello scudetto.

La Samp vinse lo scudetto 1990-1991 e arrivò in finale nella Champions l’anno dopo. E vinse tre Coppe Italia. Con arbitraggi meno partigiani avrebbero potuto vincere anche di più, ma qui emerge lo spirito del tifoso e mi cospargo anticipatamente il capo di cenere. I suoi giocatori trovarono pochissimo spazio nella Nazionale delle notti magiche, durante Italia ‘90. Vialli giocò 250 minuti. Vierchowod 126, Mancini e Pagliuca non entrarono mai in campo. Gli altri sampdoriani non erano stati convocati.

Altri tempi. E vorrei chiudere con un ricordo personale. Nel mio ufficio conservo ancora – non so dove – una lettera che Mantovani mi scrisse di suo pugno, con una calligrafia minuta e precisa. Si discuteva in merito alle condizioni pietose del terreno di gioco dopo i lavori di ricostruzione dello stadio di Marassi in occasione di Italia ’90. Un problema sul quale un amico dirigente mi aveva chiesto consiglio. Il presidente confidava che i miei suggerimenti sull’indispensabile rifacimento del terreno – usare suoli adatti in luogo di calcinacci e, soprattutto, inserirvi sensori avanzati di monitoraggio dell’umidità – venissero seguiti. Li aveva trasmessi al Comune di Genova, proprietario dello stadio. E l’amministrazione aveva promesso una sollecita soluzione.

La lezione di questa vittoria – frutto del lavoro di gruppo, della competenza, della condivisione, dell’amicizia che ripara dall’invidia – potrebbe chiudere anche un altro ciclo, iniziato con la ricostruzione degli stadi italiani per i campionati mondiali del 1990. Un’avventura che non si concluse con un archetipo di eccellenza. E segnò l’inizio del declino di questo paese, che ha proseguito sulla stessa falsariga.