Mafie

Borsellino, l’Antimafia Sicilia accusa i servizi: “Nessuna collaborazione con la nostra indagine. Preferiscono accettare sospetti sul coinvolgimento nella strage di via d’Amelio”

Dopo la relazione di tre anni fa, negli ultimi mesi la commissione guidata da Claudia Fava è tornata ad occuparsi della strage del 19 luglio 1992 per ricostruire i vari punti rimasti inevasi. A cominciare dal ruolo dei servizi. Che però, 29 anni dopo la strage, non hanno voluto collaborare al lavoro di ricostruzione dell'organo parlamentare. Il direttore dell’Aisi, Mario Parente, ha declinato l'invito a essere audito. "E' grave - scrive la commissione - che l’intelligence italiana abbia accettato - e continui ad accettare - di convivere con il sospetto di un terribile coinvolgimento dei suoi apparati in una delle pagine più nere della nostra storia"

Un’informativa dei servizi che già pochi giorni dopo la strage di Capaci lanciava l’allarme sulla vita di Paolo Borsellino. La presenza di uomini “dei servizi” in giacca e cravatta in Via D’Amelio, pochissimi minuti dopo la strage, alla ricerca dell’agenda rossa. Il ruolo del Sisde di Bruno Contrada nelle prime indagini della Procura di Caltanissetta. Sono questi i tre punti chiave tratteggiati nella relazione della commissione Antimafia dell’Assemblea regionale siciliana sulla strage dei 19 luglio 1992. Già tre anni fa l’organo guidato da Claudio Fava aveva pubblicato una relazione in cui, essenzialmente, ricostruiva come depistaggio delle indagini sulla strage di via d’Amelio fosse cominciato ancor prima che lo stesso Borsellino venisse assassinato. Negli ultimi mesi la commissione siciliana è tornata ad occuparsi dell’argomento, per ricostruire i vari punti rimasti inevasi. A cominciare, appunto, dal ruolo dei servizi. Che però, 29 anni dopo la strage, non hanno voluto collaborare al lavoro di ricostruzione di Fava. La commissione Antimafia siciliana, infatti, ha convocato in audizione il direttore dell’Aisi, Mario Parente, che però ha declinato: “Nessuna risposta dell’Aisi, nessuna collaborazione, nessuna disponibilità a riferire dinnanzi ad una commissione d’inchiesta parlamentare quali siano state – su questo punto e su molti altri – gli interventi, le valutazioni e le interferenze del Sisde nelle indagini sulla strage di via D’Amelio”, si legge nella relazione finale dell’Antimafia appena resa nota. “Quello che emerge è un quadro preoccupante. Il depistaggio non è mai finito e ancora oggi c’è un tentativo di manipolare la verità. Anche dietro le ricostruzioni fantasiose del pentito Maurizio Avola c’è il tentativo di ridurre tutto alla questione di una vendetta della mafia contro il giudice. Abbiamo un filo che da 29 anni tiene insieme tutto e che ha come obiettivo quello di portare fuori strada la lettura complessiva di via d’Amelio”, ha spiegato Fava in conferenza stampa.

Il silenzio dell’intelligence – Ma neanche Giuliano Amato, all’epoca presidente del consiglio, ha voluto presentarsi di fronte alla commissione: “Avremmo voluto chiedere al professor Giuliano Amato, all’epoca Presidente del Consiglio, e dunque l’autorità a cui rispondevano funzionalmente i nostri servizi di intelligence, se ebbe mai sentore di questa collaborazione così impropria. Il professor Amato ha ritenuto di declinare l’invito di questa Commissione”. Amato, però, spiega il perché: “… Quanto alla catena delle comunicazioni e delle decisioni istituzionali riguardanti il Sisde, so quanto conseguiva dall’allora vigente legge n. 801, che poneva il Presidente del Consiglio in rapporto costante con il segretario generale del Cesis, allora l’ambasciatore Fulci… Non essendo in grado di fornire altri elementi utili oltre a quelli qui menzionati e citati, non ravviso le condizioni per accogliere il Suo invito”. A rispondere, però, saranno altri che sottolineeranno il ruolo dei servizi prima e dopo la strage. Per questo a conclusione, la commissione sottolinea: “È grave che l’intelligence italiana abbia accettato – e continui ad accettare – di convivere con il sospetto di un terribile coinvolgimento dei suoi apparati in una delle pagine più nere della nostra storia”. Evidentemente, continua l’organo guidato da Fava, si tratta di “un rischio collaterale sopportabile, a quanto pare. Non una voce, in questi anni, una preoccupazione, un disvelamento sulla catena di comando che portò il Sisde ad aver un ruolo da protagonista nelle prime battute di quel depistaggio; non una parola o un dubbio sui signori in giacca e cravatta che quella domenica pomeriggio si trovavano tra le fiamme di via D’Amelio alla ricerca dell’agenda rossa”.

L’informativa sul rischio attentati – In 88 pagine di relazione, la commissione ripercorre molti dei punti ancora oscuri sulla strage di via d’Amelio. “Progetto di attentato in persona del dottor Paolo Borsellino”: è il 28 maggio del 1992, il centro Sisde di Palermo trasmette un’informativa alla direzione di Roma con questo oggetto. Mentre, sempre negli stessi giorni, un’altra informativa del Ros indica come Borsellino e Antonio Di Pietro siano nel mirino di attentati. La strage di Capaci risale solo a pochi giorni prima: la famiglia di Di Pietro verrà mandata all’estero e al pm di Mani pulite verrà rafforzata la scorta. Borsellino invece sprofonderà sempre più nell’isolamento: la nota del Ros che smuove la sicurezza in tutta urgenza per Di Pietro sarà inviata a Palermo per posta ordinaria: “Arriverà solamente quattro giorni dopo che l’inferno ha fatto tappa in via D’Amelio”. Il caposcorta di Borsellino, l’unico sopravvissuto, Antonio Vullo conferma in commissione che di quelle informative gli agenti – e lo stesso magistrato – non sapevano nulla. Mentre anche Di Pietro si chiede come sia stato possibile che quella del Ros fosse inviata con posta ordinaria: “Questo me lo chiedo anch’io sinceramente – ha detto l’ex leader di Italia dei valori alla commissione siciliana -. È senza una logica… Anche perché, voglio dire, poche settimane prima era stato ammazzato Falcone, non è che stiamo parlando che era una cosa a ciel sereno… in quei giorni era una carneficina continua”. Una carneficina destinata a continuare anche a causa degli inspiegabili ritardi nel garantire la sicurezza di Falcone.

Gli uomini in “giacca e cravatta” sul luogo della strage – Un inferno di fuoco. Lo scenario in via D’Amelio dopo l’esplosione è apocalittico. Sulla scena irrompono subito “quattro o cinque uomini” in “giacca e cravatta, belli freschi”, “gente di Roma”. Gente dei servizi che spunta a pochi passi dal cadavere di Borsellino solo pochi minuti dopo l’esplosione della Fiat 126 imbottita di tritolo. “Cioè la cosa strana è che io notai molta gente che si aggirava giacca e cravatta dei Servizi. Ho detto: “Ma questi come hanno fatto… a sapere già…? Ma dopo dieci minuti io già ne avevo visto un paio là che gironzolavano”. Il racconto appartiene al sovrintendente Francesco Paolo Maggi ed è stata resa al processo “Bosellino quater”. Maggi è all’epoca in servizio presso la squadra mobile di Palermo. Lui e Giuseppe Garofalo, oggi ispettore, furono i primi due poliziotti ad arrivare in Via D’Amelio. E di quegli uomini in giacca e cravatta ce n’è uno in particolare che nota Garofalo: “Abito civile, vestito con una giacca, ecco, la cosa che ha attirato la mia attenzione è stata proprio che aveva una giacca e in estate nessuno porta la giacca e questo è stato il momento in cui io ho avuto un minimo di attenzione… ma anche perché era lì, ora non ricordo se mi ha chiesto della borsa del dottore Borsellino, o piuttosto era in possesso della borsa”, ha detto il poliziotto alla commissione guidata da Fava, che sottolinea nella relazione: “Dietro a quello che può apparire come un ricordo sfuocato potrebbe celarsi la fase embrionale del depistaggio. Ossia il momento in cui l’agenda rossa di Paolo Borsellino scompare (o, per meglio dire, viene fatta sparire) dalla scena del crimine”. Ma perché scompare l’agenda rossa? A questa domanda prova a rispondere Roberto Scarpinato, all’epoca nel pool di Falcone e Borsellino: “Non basta uccidere Borsellino. Perché se tu lo uccidi, vabbè, Cosa nostra ha fatto quello che doveva fare. Ma se l’agenda rossa nella quale Paolo Borsellino aveva annotato tutti i dialoghi informali e così via finisce nelle mani della magistratura è finita. È finita perché… le chiavi che lo avevano sgomentato sono in grado di aprire scenari che non colpiscono soltanto gli interessi di Cosa nostra ma colpiscono e portano ad individuare i mandanti ed i complici esterni di quella strage”.

La Procura di Caltanissetta sceglie il Sisde – Un altro punto su cui ha lavorato l’Antimafia è la scelta della procura di Caltanissetta, all’epoca guidata da Gianni Tinebra, di avvalersi della collaborazione del Sisde di Contrada per indagare sulla strage, già nelle ore immediatamente successive all’esplosione di via d’Amelio. Una decisione vietata per legge oltre che irrituale, anche perché esistevano “altri corpi di polizia giudiziaria, perfettamente attrezzati per esperienza e cultura investigativa, per indagare su Capaci e via D’Amelio. Certamente lo era la Direzione Investigativa Antimafia, di recentissima costituzione, che fu messa inopinatamente da parte dalla procura di Caltanissetta”, scrive Fava. E Claudio Martelli, all’epoca dei fatti ministro della Giustizia, ha detto: “Da quel che io mi ricordo non abbiamo mai avuto notizia di simili iniziative, di un simile coinvolgimento contra legem di servizi di intelligence nelle indagini”. Mentre la Dia venne esclusa, e su questo punto l’ex pm Antonio Ingroia sottolinea di fronte alla commissione: “All’epoca il capo della Dia era Gianni De Gennaro che aveva un ruolo di stretta collaborazione in passato sia con Falcone, sia con Borsellino”. “Il ruolo svolto dal Sisde nelle indagini sulla strage di Via D’Amelio non era noto”, conferma alla commissione Massimo Brutti, allora presidente del comitato di controllo parlamentare di controllo sui servizi segreti. Ma nelle indagini della commissione regionale Antimafia entrano anche i fondi neri del Sisde. È Contrada che riferisce alla commissione di soldi dati sottobanco al prefetto di Palermo Mario Iovine, il segretario personale di Dalla Chiesa, e Arnaldo La Barbera: “Siccome al dottor La Barbera piaceva soggiornare in albergo, quindi, per venire incontro alle sue esigenze economiche gli faceva avere mensilmente il denaro”.