Economia

Carenza di microchip causa Covid a Taiwan, effetto domino su tutto il mondo. I consumatori pagano il conto: ritardi nel settore auto, ritocchi ai prezzi di Pc e smartphone

I nuovi rallentamenti di produzione peggiorano una situazione di carenza di offerta con conseguenze su numerose industrie, a cominciare dal settore auto. E si registrano i primi rincari dei prodotti finali: Asus, Dell, Hp e altri grandi marchi di elettronica iniziano a rivedere i listini. Boom dei prezzi delle schede grafiche, ricercatissime anche dai "minatori" di monete digitali. La tecnologia è una delle grandi partite della lunga sfida geopolitica in cui si fronteggiano Cina e Stati Uniti

La carenza di microchip, che dura ormai da mesi, comincia a rosicchiare direttamente le tasche dei consumatori finali. Non più solo ritardi ma anche costi più alti per computer, smartphone e apparecchiature elettroniche. Secondo quanto riporta il Wall Street Journal, sono ormai numerosi i produttori di pc e ad apparecchiature elettroniche che stanno ritoccando i listini per far fronte ai maggiori costi di approvvigionamento di semiconduttori. Una tendenza che tenderà ad estendersi e perdurare. Il quotidiano statunitense cita tra gli esempi un pc Asus per gamers (quindi con schede grafiche particolarmente performanti, ndr) il cui costo è salito da 900 a 950 dollari. O gli incrementi di prezzo del 20% delle stampanti HP e dell’8% per i Pc. Da inizio giugno il prezzo del popolare Chromebook è salito, negli Usa, da 220 a 250 dollari. Anche Dell starebbe mettendo mano ai listini. Le consolle della nuova Playstation 5 Sony arrivano nei negozi con il contagocce per lo stesso motivo. “Non disponibile” è il messaggio che si legge sui siti dei rivenditori on line.

Sinora uno dei settori più colpiti è stato quello dell’auto. Una vettura di ultima generazione monta centinaia di semiconduttori e, ormai, circa il 35% del costo di costruzione attiene alle componenti elettroniche. Tutti i grandi produttori, da Ford a Stellantis, hanno annunciato rallentamenti della produzione riconducibili al “chip shortage”. Seat, marchio del gruppo Volkswagen, è stata costretta a chiudere temporaneamente il suo stabilimento di Martorell, vicino a Barcellona. Così come in questi giorni funzionano a singhiozzo alcune linee di Volvo e Audi. Ma lo stesso problema riguarda, con tempistiche e intensità varia, tutte le case automobilistiche.

L’associazione dei produttori europei di componentistica auto stima in 500mila vetture il ritardo accumulato in questo mese sulle linee di assemblaggio e prevede che la fame di chip durerà almeno fino al 2022. Pochi giorni fa il dirigente della Bosch Harald Krüger ha invitato i produttori di auto a investire per ridurre la loro vulnerabilità alle oscillazioni del mercato. Il gruppo tedesco ha da poco inaugurato uno stabilimento (finanziato anche con fondi pubblici) in patria per produrre semiconduttori ma, avverte Krüger molto altro dev’essere fatto. I chip sono ovunque, in qualsiasi tipo di industria, dagli elettrodomestici alle telecomunicazioni. Più in generale la loro carestia sta inducendo un ripensamento dei sistemi “just in time” più esasperati, dove i componenti che arrivano solo all’ultimo momento direttamente sulla catena di montaggio, azzerando i costi di magazzino ma aumentando la sensibilità alle strozzature nelle forniture. Il settore delle quattroruote è peraltro stretto in una doppia morsa visto che si trova alle prese anche con il boom dei prezzi dell’acciaio e di altri materiali utilizzati nella produzione.

Problema, quest’ultimo che sta affliggendo svariate industrie oltre all’edilizia. Piccola nota di ottimismo: la fiammata delle quotazioni delle commodities che ha caratterizzato i primi mesi dell’anno si è affievolita negli ultimi giorni. Vedremo se si tratta di una semplice tregua o di un’inversione di rotta. Curioso quello che sta accadendo negli Stati Uniti dove i produttori accusano gli stessi problemi e rallentamenti. La carenza di offerta ha fatto volare alle stelle i prezzi delle auto usate con rincari medi del 20% e che per alcuni modelli arrivano fino al 50% rispetto all’anno prima.

Quando si parla di microchip si parla automaticamente di Taiwan. Sull’isola di fronte alla Cina, oggetto di crescenti bramosie da parte di Pechino, si producono la gran parte dei semiconduttori utilizzati nel mondo. La sola Taiwan Semiconductor Manufacturing Company (Tsmc) costruisce il 45% dei chip utilizzati nel mondo, spesso progettati altrove ma qui materialmente realizzati. Per intenderci tutti gli Stati Uniti producono il 12% dell’offerta globale. Oltre a Tsmc sull’isola sono presenti altri colossi del settore come King Yuan Electronics, Accton, MediaTek e Foxsemicon (affiliata al gigante Foxconn, anch’esso taiwanese ma con stabilimenti principalmente in Cina).

La produzione aveva già accumulato ritardi durante la prima ondata della pandemia ma ora a Taiwan la situazione è tornata a destare preoccupazioni, rallentando di nuovo l’attività degli stabilimenti. Il nuovo aumento dei contagi e delle vittime registrato nelle ultime settimane, ha portato alla chiusura di alcuni impianti aggravando la penuria. In queste condizioni i produttori iniziano a mettere in fila i clienti, con precedenza a quelli che “valgono” di più, come Apple. O le forniture di natura militare. La tecnologia è una delle grandi partite della lunga sfida geopolitica in cui si fronteggiano Cina e Stati Uniti. Una “guerra” di logoramento economico commerciale che Joe Biden sta portando avanti con ancora maggior determinazione del predecessore Donald Trump.

Non aiutano gli incidenti che hanno penalizzato in questi mesi la logistica. Da ultimo il blocco di alcuni hub portuali cinesi, di nuovo a causa di una ripresi locale dei contagi da Covid. Infine, altro elemento di pressione sul mercato, è l’incetta di schede grafiche, e altre componenti, che stanno facendo i “minatori” di criptovalute come bitcoin e soprattutto ethereum, in scia ai forti rialzi che fino a poche settimane fa avevano messo a segno le valute digitali. Il costo di una scheda grafica Nvidia rtx 3080 è ad esempio balzato da 690 a 2.400 dollari.