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Tutti contro la Cina, ma sarà una strategia intelligente?

Mentre infuria la polemica sulle telecamere cinesi HikVision installate in Italia in palazzi del potere coperti dalla sicurezza nazionale (trasmetterebbero dati segreti a Pechino, anche da Palazzo Chigi secondo un accurato servizio di Report – Rai3) non è una cattiva idea allargare un poco l’orizzonte, in termini geopolitici. Anche per tentare di arginare il dominante, quasi asfissiante neo-maccartismo anti-Cina che dilaga sui media, nei partiti, al governo, ovunque.

Nelle ore in cui divampa la guerra tra Israele e Palestina (anche questa raccontata in modo faziosamente pro-Israele) la geopolitica del rapporto con la Cina è passata per il momento in secondo piano, tuttavia nel lungo termine resta un fattore ineluttabile: l’Asia guarda ad Ovest quasi a controbilanciare lo storico movimento europeo verso Est, per cui parlare di un continente più ampio, l’Eurasia, in teoria e in pratica è questione più attuale di prima. Peccato che gli Stati Uniti non ne vogliono sapere, e quel che è peggio riescono a convincere l’Unione Europea del contrario.

Con quel concetto in mente – l’Eurasia – nel dicembre 2020, in una conferenza stampa alla presenza di Angela Merkel ed Emmanuel Macron, la Ue annunciava dopo lunghi anni di trattative la chiusura dei negoziati per un accordo bilaterale sugli investimenti europei in Cina. Alla base molti motivi di puro business, ben chiari alle decine di migliaia di aziende Ue (tantissime italiane) che lavorano con il Dragone: la mancanza di reciprocità di trattamento rispetto a quello garantito alle imprese cinesi in Europa. La necessità cioè di creare un campo di gioco “livellato”, più equilibrato, simile a quello sui cui giocano le aziende statunitensi grazie alla protezione dell’accordo Usa-Cina noto come “Phase 1”.

È probabile che Angela Merkel, arrivata politicamente a fine corsa, abbia voluto assicurare all’Europa un accesso privilegiato al colosso asiatico non dissimile da quello ottenuto dagli Stati Uniti o dal Giappone. Lo stesso approccio seguito da alcuni paesi Ue, Italia in testa, firmatari di “memorandum” con Pechino, al fine di partecipare al progetto della “Belt and Road Initiative”, piano violentemente osteggiato da Washington.

Gli anni di Donald Trump alla Casa Bianca hanno avuto come conseguenza che la “guerra alla Cina” (puramente commerciale ed economica, non perché comunista e non perché violano i diritti umani) abbia prodotto anche in Europa un’ondata di risentimento e odio anti cinese. L’amministrazione di Joe Biden sembra però non volere o non potere cambiare rotta, con in più una rinnovata (e rischiosa) intransigenza nei confronti della Russia di Vladimir Putin (definito “un killer”).

Insomma non più un solo nemico per l’America, ben due. Washington ha sgombrato il campo da qualsiasi ambiguità, mostrando i muscoli agli alleati europei e puntando sul vecchio atlantismo protetto dall’ombrello Nato. È quindi ferma intenzione della Casa Bianca evitare ulteriori saldature tra Europa e Asia, per cui bye bye Eurasia, e addio a tutte le iniziative europee di cooperazione con Pechino, nelle ultime settimane congelate o in stand by prolungato.

Il futuro della geopolitica atlantista riverniciata di nuova animosità anti-cinese – la guerra tra Israele e Palestina è quasi un disturbo/diversivo rispetto ai grandi giochi dei globalisti – sarà comunque decisa in Europa e dipenderà in concreto da chi risulterà vincitore alle prossime elezioni politiche in Germania (a settembre) nonché dalle presidenziali in Francia (e se nel 2022 vincesse Marine Le Pen?).

Oltre che, evidentemente, dall’atteggiamento della Cina stessa. Alla quale, secondo la maggior parte degli osservatori, spetta fare il primo passo per ricucire lo strappo con noi europei, visto che alle sanzioni Ue imposte a Pechino per gli eventi nello Xinjiang (violazione diritti umani degli Uiguri) Xi Jinping ha risposto con una raffica di contro-sanzioni. Ciò ha indignato il Parlamento Europeo, a cui spetta la ratifica dall’accordo siglato a dicembre sugli investimenti Ue in Cina. In pochi mesi, insomma, la geopolitica ha toccato la casella “fate tre passi indietro con tanti auguri”.

E l’Italia? Roma ha avuto un ruolo marginale nei negoziati per il trattato Ue-Cina, anche se a beneficiarne – semmai entrerà in vigore – saranno centinaia di piccole e medie imprese italiane, di cui nessuno parla ma che hanno un bisogno disperato nel post-pandemia di fare affari con la Cina. C’è dell’altro: fino a pochi mesi fa Roma in ambito G7 era ritenuta la capitale più vicina al Dragone, soprattutto dopo la firma del famoso “memorandum”. Oggi invece il governo di Mario Draghi con Luigi Di Maio ministro degli Esteri sembra voler apparire l’avversario politico più fermo della nazione del comunismo capitalista.

Per rimarcare la “fedeltà atlantica” e il totale ossequio agli Stati Uniti, il governo di Roma fa ormai l’anti-cinese full time (il servizio di Report sulle telecamere “made in China” è l’ultima di una lunga serie di conferme). I grandi giornali non lesinano sensazionalismi in materia, descrivendo una fantasiosa “colonizzazione gialla” dell’Italia, peccato che guardando i numeri gli investimenti diretti del colosso asiatico nel nostro paese risultano molto bassi rispetto alle altre nazioni Ue (e viceversa). La narrazione mediatica su cui è impostato il pesante neo-maccartismo anti-Cina ignora di fatto, stupidamente, le concrete esigenze delle Pmi italiane esportatrici, sopravvissute nel terribile 2020 pandemico proprio grazie all’export sul vasto mercato cinese da centinaia di milioni di consumatori (“made in Italy” e moda, certo, ma anche meccanica di precisione, apparecchiature mediche e molto altro) mentre sono già oltre 2000 le imprese italiane che operano direttamente lì con propri investimenti diretti.

La verità è che nessun esponente del governo italiano ha speso una sola parola sulla conclusione del trattato Ue-Cina a fine dicembre 2020. Nessuno ha espresso la benché minima preoccupazione, né a Palazzo Chigi né alle commissioni di Camera e Senato, quando la Commissione europea giorni fa ha segnalato le difficoltà insite perfino nell’avviare la procedura per aprire una discussione a Bruxelles, per via delle contro-sanzioni cinesi. E Luigi Di Maio, un tempo capofila dei fan di Pechino, oggi non indica dalla Farnesina alcuna strada per ricucire i rapporti. Intanto, il capo di gabinetto del ministro degli Esteri, l’ottimo Ettore Sequi, dal 2015 al 2019 ambasciatore italiano a Pechino, è stato nominato pochi giorni fa Segretario Generale del Mae (ministero degli Affari Esteri).

Può darsi che la strategia italiana nel lungo termine paghi: mostrandosi meno amici e più falchi, forse si otterranno concessioni. Per adesso, a parte la luce verde per vendere ai cinesi riso italiano, i risultati non sono entusiasmanti. Un esempio semplice ma non banale: i voli aerei diretti Italia-Cina continuano ad essere sospesi, formalmente per il Covid ma guarda caso da Germania, Francia e Olanda si viaggia a Pechino o Shanghai già da un pezzo (e il passaporto vaccinale italiano verrà riconosciuto? Non si sa. E quando riprenderanno i visti d’affari?). Tutti aspetti che favoriscono i nostri partner e concorrenti europei, per i quali poter viaggiare in Cina equivale a firmare contratti, vendere prodotti, impiantare attività di distribuzione, espandersi.

Per assurdo, conoscendo la realpolitik che governa i rapporti tra nazioni, può anche darsi, anzi è probabile, che Cina e Stati Uniti alla fine – tra qualche tempo – trovino un compromesso, un modus vivendi o convivendi scevro da ideologismi, forse nell’interesse della lotta ai cambiamenti climatici o (senza ipocrite menzogne) in nome degli enormi reciproci interessi economici. Chi segue le vicende finanziarie sa che molte grandi banche di Wall Street – da BlackRock a Morgan Stanley a Goldman Sachs – continuano a crescere e investire sul mercato dei capitali e sulla borsa cinese, così come, passato il fazioso periodo trumpiano del feroce ostracismo, start up e colossi high tech cinesi continuano a quotarsi al New York Stock Exchange e al Nasdaq.

Guardando oltre lo scenario contingente, non è quindi da escludere che passate le elezioni americane di midterm, Joe Biden e Xi Jinping si stringeranno di nuovo la mano per firmare un nuovo importante accordo bilaterale tra le due nazioni (“Phase 2”), che darà ancor più possibilità di accesso in Cina alle aziende Usa. A quel punto noi italiani forse rimpiangeremo di non averlo nemmeno letto, quel trattato che l’Europa aveva negoziato così a lungo.