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Sud Sudan, agguato al vescovo Carlassare: arrestati anche tre preti. Kalashnikov e lotte tribali nelle terre dell’attacco

Il missionario è stato ferito da uomini armati nella sua casa di Rumbek. Fermati anche tre sacerdoti della diocesi di Rumbek, fra cui spicca il nome del coordinatore diocesano John Mathiang. Comboniani e medici della ong Cuamm spiegano a ilfattoquotidiano.it quale sia il contesto etnico politico del Lakes State, e di un Paese dove circolano troppe armi e la lotta tra le etnie dinka e nuer è tutt'altro che esaurita

Padre Christian Carlassare, missionario comboniano e vescovo eletto di Rumbek (capitale del Lakes State, Sud Sudan), ferito alle gambe da sconosciuti mentre si trovava nella sua abitazione, è giunto a Nairobi in discrete condizioni. Intanto, la rivista dei comboniani Nigrizia (citando l’agenzia d’informazione Aci Africa) ha reso noto che, fra i 12 arresti effettuati ieri dalla polizia sudsudanese, figurano anche tre sacerdoti della diocesi di Rumbek, tutti di etnia dinka, fra cui spicca il nome del coordinatore diocesano John Mathiang. Gli altri sono laici con diverse responsabilità a livello della Chiesa locale. Tali arresti fanno intuire l’inquietante sottobosco nel quale sarebbe maturata l’aggressione a Carlassare, comprensibile solo se calato nel contesto difficile del Sud Sudan.

“Qui circolano troppe armi” Gelmino Tosi, ora in Italia, ha lavorato per il Cuamm, ong sanitaria che opera in Africa, a Lui, villaggio a metà strada fra la capitale Juba e Rumbek. Al di là delle motivazioni che possono essere dietro il ferimento di Carlassare, sottolinea a ilfattoquotidiano.it un punto chiave: “In Sud Sudan circolano troppe armi. Tutti hanno un kalashnikov. In ospedale all’ingresso avevamo una rastrelliera per lasciare i fucili. Ma la gente dovrebbe essere disarmata”. Don Dante Carraro, direttore del Cuamm, sul sito dell’omg spiega che “in questa zona episodi del genere sono molto frequenti, ogni giorno in ospedale arrivano feriti da arma da fuoco”. E in effetti, se questo caso ha destato più attenzioni, non è tuttavia il primo: nel 2018 un gesuita era stato ucciso a colpi d’arma da fuoco nella contea di Cueibet.

La politica, le lotte etniche e l’accesso alle risorse – Siamo in un contesto di estrema povertà e violenza. Il Sud Sudan, grande due volte e mezza l’Italia, è il Paese più giovane del mondo, nato nel luglio 2011 dopo un referendum per l’indipendenza dal Sudan. Un sogno trasformatosi presto in incubo: nel 2013 è scoppiata infatti la guerra civile, formalmente cessata nel 2018, ma i cui strascichi si sentono pesantemente ancora oggi. Le contese già in corso per terra e bestiame, ma anche per le risorse (oro e petrolio in primis) sono ora acuite dalla profonda crisi economica. Raccontava lo stesso padre Christian nel febbraio scorso alla rivista dei comboniani Nigrizia: “Le dinamiche della guerra si sono appropriate delle logiche politiche e il paese è dominato da un’élite militare che ne divora le risorse ed è smembrato attraverso tutto il territorio in molti gruppi etnici costretti a salvaguardare l’accesso alle risorse e alla loro stessa stessa esistenza”.

Come spiega a ilfattoquotidiano.it padre Daniele Moschetti, anche lui comboniano, che ha vissuto a lungo in Sud Sudan e ne è stato anche provinciale, “la realtà è complessa. Non solo la guerra civile: il paese arrivava già da quasi 40 anni di guerra fra nord e sud del Sudan, prima che si giungesse all’indipendenza. Per un po’ si era sperato: è l’unico paese al mondo diventato indipendente con un referendum. Avevano votato sì tutte le etnie compatte. Ma la liberazione è durata poco: in due anni è diventata appannaggio di pochi militari che si sono arricchiti portando soldi all’estero. La guerra civile che oppone le due etnie maggioritarie, dinka e nuer, ha portato al disastro totale. Violenze atroci, stupri di massa. Ricordiamo tutti le immagini di papa Francesco che si inginocchia e bacia i pedi di Salva Kiir e Riek Machar, i leader dei due gruppi. Era l’aprile 2019, esattamente due anni fa, gli accordi erano stati firmati l’anno prima, ma la pace stentava a decollare. Quel gesto eclatante e profetico, segno di grande umiltà e amore per il popolo sudanese, aveva profondamente colpito tutti. Dietro, c’era stato un grande lavoro di diplomazia sia del papa che del Primate anglicano Justin Welby”.

Il racconto di padre Daniele tratteggia un quadro in cui chi è al potere, a dispetto dell’alone eroico ereditato dal passato, dalle lotte per l’indipendenza, oggi si è mangiato tutto, accumulando debiti enormi. Tutti vogliono la loro fetta di torta. Dentro e fuori il paese.
“Oggi esiste un governo di coalizione, in cui sono dentro quasi tutti, ma poi ogni etnia ha il suo esercito, ce ne sono una decina. I tentativi di dar vita a un esercito unico nazionale sono stati finora senza successo”.

I conflitti tra dinka e nuer – Intanto, lo Stato è allo sfascio, sommerso dai debiti, coi pozzi di petrolio fermi: tutti, tranne uno, sono da rimettere in funzione. E quasi tutti in zona nuer. “È già un miracolo che non ci siano ancora conflitti grossi. Nel Lakes State, capitale Rumbek, dove è avvenuto l’agguato a padre Christian, ci sono anche molti scontri interni fra dinka, spesso conflitti per il bestiame, con dieci, venti, anche cento morti alla volta. I giovani hanno tanti, troppi kalashnikov”.

“Alla fine, ciò che pare più probabile riguardo all’aggressione a padre Christian, è che alcuni locali volessero un vescovo dinka. In più, padre Christian ha lavorato per 15 anni in zona nuer, ne parla la lingua e questo può esser stato percepito da alcuni come ostile. Non però dalla maggioranza della popolazione, che il 15 aprile lo aveva accolto con grande calore”.

La diocesi di Rumbek, martoriata durante la guerra, è restata per dieci anni senza vescovo. Lo stesso presidente Salva Kiir non avrebbe fatto mistero di volere un vescovo dinka. Nonostante ciò, ieri Kiir ha diffuso un comunicato in cui afferma, fra l’altro: “Se chi ha eseguito questa vergognosa azione l’ha fatto per intimidire la Chiesa, si è sbagliato. Il vescovo è stato eletto come leader, e le autorità della Stato dei Laghi lo sosterranno e non permetteranno che pochi criminali disturbino il programma delle autorità ecclesiastiche”.

Padre Renato Kizito Sesana, comboniano ora in Zambia, profondo conoscitore della realtà kenyota e sudsudanese, commenta oggi i fatti con un lungo post su facebook, in cui afferma tra l’altro: “Il Presidente sa che la motivazione dell’attacco è una motivazione tribale. (…) le élite dinka non lo vogliono a capo della loro diocesi. Ciò che dovrebbe essere ragione di merito – la condivisione di vita con la gente – diventa motivo di accusa. Senza capire una cosa elementare della spiritualità missionaria: Padre Christian come è diventato nuer con i nuer è pronto a diventare dinka con i dinka.”

E prosegue: “È la gente comune che soffre di più. Se due sicari possono compiere con impunità un’azione del genere nei confronti di un vescovo neo-eletto su cui sono puntati i riflettori, cosa possono fare ai semplici cittadini? Noi missionari resistiamo sempre a individuare il tribalismo come la causa di tutti i mali africani, perché sappiamo bene che le cause di questi mali sono quasi sempre diverse, con profonde radici sociali e storiche. Ma in Sud Sudan bisogna dire alto e chiaro che il tribalismo alimentato dalle élite per consolidare il loro potere è la maggior causa delle violenze che lacerano il paese, e che i principali responsabili sono i leader”.

(immagine d’archivio: soldati liberati a Pibor, Jonglei State, Sud Sudan. 2015)