Economia

Appello di ong e accademici: “La Banca Mondiale non pubblichi più il rapporto Doing Business, premia chi riduce diritti e welfare”

Un gruppo di 350 tra organizzazioni della società civile, sindacati e personalità del mondo accademico di 75 Paesi ricorda come "anche ex funzionari di alto livello delle Nazioni Unite e dell'Ocse abbiano messo in discussione il rapporto" che ha "incoraggiato politiche che hanno peggiorato le disuguaglianze". Lo scorso anno la stessa Banca mondiale l'ha sospeso. Tra i firmatari ActionAid, Oxfam, Global Alliance for Tax Justice, Tax Justice Network, Corporate Europe Observatory

I rapporti Doing Business della Banca Mondiale, che danno un punteggio ai 190 paesi analizzati sulla base della presunta “facilità di fare affari” sul loro territorio, non devono più essere pubblicati perché incentivano a tagliare il welfare, gli standard ambientali e le regole sul mercato del lavoro pur di scalare qualche posizione. A chiederlo è un gruppo di 350 tra organizzazioni della società civile, ong, sindacati e personalità del mondo accademico di 75 Paesi, che nel loro appello ai direttori esecutivi della World Bank ricordano come “anche ex funzionari di alto livello delle Nazioni Unite e dell’Ocse abbiano messo in discussione il rapporto su molti livelli, inclusi la metodologia, la selezione dei dati e le distorsione che porta a preferire lo sfoltimento delle regole”. Tra i firmatari ci sono ActionAid, Oxfam, Global Alliance for Tax Justice, Tax Justice Network, Corporate Europe Observatory, International Trade Union Confederation e decine di docenti ed esperti indipendenti tra cui Isabel Ortiz, ex funzionaria dell’Ilo e delle nazioni Unite che oggi dirige il Global Social Justice Program alla Columia University.

Lo scorso anno la pubblicazione del rapporto è stata sospesa dalla stessa istituzione di Washington dopo la segnalazione di “numerose irregolarità” nelle edizioni 2018 e 2020. Il Wall Street Journal ha reso noto che i Paesi coinvolti sono Cina, Azerbaijan, Emirati Arabi e Arabia Saudita. Negli ultimi cinque anni Pechino è passata dalla 90esima posizione alla 31esima, l’Azerbaijan dalla 80esima alla 34esima, gli Emirati Arabi dalla 22esima alla 16esima, mentre l’Arabia Saudita dalla 49esima alla 62esima, sebbene nel 2019 Riyadh sia stata celebrata dalla Banca Mondiale come “top reformer”.

Nell’appello si ricorda che il panel di revisione chiesto dalla World Bank nel 2013 diede “raccomandazioni preziose, ma la risposta istituzionale fu limitata”. Tra le proposte c’erano per esempio la cancellazione permanente degli indicatori sulla flessibilità del mercato del lavoro e sul peso delle tasse, che penalizza i Paesi che richiedono alle aziende di pagare imposte societarie e contributi sociali e previdenziali che aiutano le famiglie. Nel 2018 poi l’allora capo economista della Banca, Paul Romer, prima di dimettersi disse che “motivazioni politiche” avevano contribuito a far calare il ranking del Cile durante la presidenza socialista di Michelle Bachelet.

Il risultato, secondo i firmatari, è che il report “spinge i governi ad adottare politiche sbilanciate e di breve termine, che nei fatti non beneficiano il business, i posti di lavoro e lo sviluppo sostenibile”. In questa fase in cui il mondo tenta di combattere la pandemia e di impostare la ripresa, “le conseguenze di questa corsa al ribasso incentivata dal Doing Business Report sono diventate dolorosamente evidenti”, continuano. “Per troppo tempo il report ha incoraggiato politiche che hanno peggiorato le disuguaglianze – inclusa le deregulation che ha esacerbato la divisione del lavoro per genere e razza – eroso la protezione dei lavoratori e la capacità di mobilitare le risorse domestiche, soppresso la domanda aggregata e la diversificazione economica e in questo modo messo a rischio la legittimità delle istituzioni”.