Diritti

Può dirsi laico uno Stato che non tutela i lavoratori del sesso per motivi etici e morali?

Può dirsi laico uno Stato che riserva trattamenti diversi ai consociati sulla base di criteri etico-morali e di un atteggiamento giudicante nei confronti delle scelte di vita delle persone? La domanda sorge in relazione a numerose situazioni venutesi a creare durante le diverse fasi della pandemia in corso, ma ci riferiamo nello specifico al sostegno negato alle lavoratrici e ai lavoratori del sesso che, come raccontano le cronache, si son trovati nel bel mezzo della tempesta a non poter svolgere il proprio lavoro per evidenti motivi di ordine sanitario e a non essere destinatari di alcuno strumento di sostegno al reddito.

Il risultato è stato che quelle persone si son trovate ad accrescere le file davanti alle istituzioni che si occupano di assistenza alle persone indigenti. La domanda sull’utilizzo di criteri di tipo etico-morale si pone in quanto la legge Merlin rese perseguibili i reati di sfruttamento e favoreggiamento, ma non il lavoro sessuale in sé. Da un lato dunque l’attività non è di per sé illegale, ma questo stato di cose confina le lavoratrici e i lavoratori del sesso in un’area grigia che, oltre a creare enormi rischi per la loro incolumità derivanti dall’operare in un contesto di illegalità, non consente l’emersione del lavoro e dei redditi che ne derivano.

Ma tutto questo non dovrebbe incidere sull’esclusione dai programmi di assistenza del momento emergenziale. A nulla sono valse le richieste avanzate da numerose associazioni che operano nel settore, a partire dallo “storico” Comitato per i diritti civili delle Prostitute, affinché si consentisse a queste persone di fruire dei normali diritti di cittadinanza: queste rivendicazioni son cadute nel nulla e non è ravvisabile altro motivo che non sia quello di un giudizio etico-morale sulle scelte delle persone.

Ci si è accodati ai sostenitori del modello abolizionista già adottato da alcuni paesi del nord-Europa: secondo costoro quella dei e delle sex-worker non è mai una scelta libera ma nella migliore delle ipotesi indotta da uno stato di necessità: un po’ come dire “tu non ti sai autodeterminare e quindi intervengo io per salvarti anche da te stesso o da te stessa”: che sia di derivazione cattolica o religiosa, in generale l’idea di salvare qualcuno da decisioni libere ma considerate “scellerate” nasce da presupposti etici e sappiamo bene che uno stato che si pone in maniera etica e giudicante, ergendosi a tutore della morale, si colloca su un piano inclinato la cui deriva non è prevedibile.

La materia dovrebbe essere invece affrontata in un’ottica di piena laicità secondo le richieste e le istanze di chi quel lavoro lo pratica autodeterminandosi, e rifuggendo dagli atteggiamenti moralistici e sovradeterminanti di chi propugna il modello abolizionista: confondere – con disonestà intellettuale e inquinando così il dibattito – il lavoro sessuale volontario con la tratta impedisce da un lato – e come sempre accade con i proibizionismi – un’efficace lotta contro la tratta di esseri umani e, dall’altra, le libere scelte sul proprio corpo.

Da anni l’associazionismo chiede la decriminalizzazione del lavoro sessuale a partire dalla cancellazione del reato di favoreggiamento: se infatti la legge Merlin (ancorché datatissima e ormai incapace di fotografare la realtà) ha il merito di aver sottratto le donne – e solo di donne all’epoca si trattava – allo sfruttamento, mantenere il reato di favoreggiamento di fatto costringe i e le sex worker ad operare nell’illegalità (con i conseguenti rischi e ricatti) nel momento in cui non consente – pena l’accusa di favoreggiamento della prostituzione per il locatore – nemmeno la locazione di un appartamento nel quale svolgere in sicurezza l’attività.

Le ultime situazioni di esclusione dai provvedimenti di sostegno nascono sicuramente da quel tipo di impostazione e – se è complicato affrontare in tempi rapidi la questione della decriminalizzazione – sarebbe utile, in tempi così bui, mitigarne almeno le conseguenze. Ma nulla si è fatto né nel senso di programmi di sostegno alle persone fragili in generale (e cioè tutti i lavoratori e le lavoratrici che – per i motivi più diversi – svolgono attività in nero) né finanziando il potenziamento delle unità di strada che si occupano di prima assistenza.

E così si è finito per accrescere l’esercito delle persone in fila davanti alle mense e agli alberghi dei poveri. Non è quel che sarebbe legittimo attendersi da uno Stato laico.