Politica

La destra critica la Cina solo perché sta all’opposizione. Ma a Pechino non importa nulla

In questi giorni di devastante collasso economico per la pandemia, di crisi politica strisciante (dopo la fiducia in Parlamento Conte resta in piedi ma ha le ali piombate), nelle ore in cui il peggior presidente degli Stati Uniti di sempre emigra in Florida dopo quattro anni di menzogne, populismo e incompetenza, in tale scenario già abbastanza incerto e ansiogeno, qualcuno in Italia si diletta un giorno sì e uno pure in un nuovo sport: attaccare la Cina. Non è una cosa nuova, è una forma acuta ma virulenta di neo maccartismo anticinese, e va avanti da un pezzo, perlomeno dalla nascita del Conte II.

Eh sì, perché durante il Conte I un pezzo della destra (la Lega) firmò il Memorandum sulle Vie della Seta con la Cina, insieme ad altri 12 paesi europei, e in quel caso le voci critiche arrivarono dal Pd. Strano poi, perché Paolo Gentiloni – prima di sbarcare a Bruxelles come commissario europeo – da premier era stato l’unico leader del G7 a partecipare al Summit di Pechino del 2017, e nessuno aveva fiatato.

Funziona più o meno così: se al governo in carica piace Topolino chi sta all’opposizione dice che Topolino fa schifo, per poi ribaltare lo scenario se dall’opposizione si passa a Palazzo Chigi, e viceversa. Normale dialettica politica in un paese in cui ampie fette del Parlamento e dei media hanno una preparazione se non nulla assai modesta in questioni di geopolitica, che un tempo si chiamava “esteri”. Rari sono i personaggi che sul rapporto tra Roma e Pechino cercano ragionevoli mediazioni con un approccio da realpolitik.

Spesso però si va oltre ogni decenza.

I più vocali nell’attaccare senza ritegno una superpotenza come quella cinese che ha un quinto della popolazione mondiale e con la quale lavorano migliaia di aziende del ‘made in Italy’, che danno lavoro a decine di migliaia di occupati, sono i cantori (giornalisti e politici) che in campo giocano con la maglietta Destra. Meloni e Salvini a reti tv e social unificati, Sallusti su Il Giornale, Belpietro e Capezzone su La Verità, Dagospia e parecchi altri. Il gotha del trumpismo all’italiana con il codazzo non molto acculturato di imitatori, seguaci e troll.

Ebbene, in termini geopolitici, oltre il teatrino della politica nazionale, la credibilità dei loro attacchi è pari a zero. Infatti:

– se le bordate contro la Cina si spiegano con la questione dei “diritti civili”, non si capisce perché la destra sorvoli agilmente sui simili problemi in Russia o Bielorussia;

– se il problema è la concorrenza economica e l’efficace riposizionamento del sofisticato capitalismo cinese, i campioni della “flat tax” made in Italy dovrebbero ammirare la Cina, dove il carico fiscale sulle imprese è tra i più bassi nel mondo e dove vige un’etica del lavoro da azienda bergamasca anni ’60;

– se il problema sono “i diritti dei lavoratori”, sui quali peraltro la Cina ha fatto passi da gigante negli ultimi 10 anni, come fanno i difensori italioti del libero mercato a giustificare la loro guerra ai sindacati e alla “cultura di sinistra” di casa nostra?

– se il problema è la polizia cinese che interviene duramente nelle manifestazioni pro-democrazia a Hong Kong, non sono gli stessi che vorrebbero abolire il reato di tortura e vietare i centri sociali?

– se il problema sono gli uiguri… ah no, un momento… la Destra raramente parla degli uiguri, già, essi sono musulmani e in area sovranista chiunque abbia l’etichetta ‘musulmano’ va combattuto.

Dov’è allora il vero problema?

Di fronte a questo accanimento anti Pechino (tra i cavalli di razza il faziosissimo ambasciatore Giulio Terzi di Sant’Agata, ministro degli Esteri nel governo Monti, oggi presidente d’onore del Partito Radicale), credo che il motivo per cui la Destra ce l’ha con la Cina e di riflesso per assurdo con i “cinesi” in generale è che il partito unico al governo si chiama Partito Comunista Cinese.

Ovvero, la Destra è anticomunista, non anticinese. Se il Pcc cambiasse nome e si chiamasse, dalla prossima settimana, “Cina Unita”, e se Xi Jinping rinnegasse Marx, Lenin e Mao continuando a fare le stesse identiche cose – in politica interna, estera, in finanza, economia e sul lavoro – è probabile che gli insulti diventerebbero soft e poi finirebbero.

Ecco un possibile suggerimento per la leadership cinese: caro Xi, cambia nome al partito (chiedere agli ex comunisti italiani: da Pci a Pds-Ds-Pd) e vi farete amici non solo i trumpiani italiani, ma anche quelli doc negli Usa.

Il dubbio è che della Destra chiassosa di una piccola nazione mediterranea nota più che altro per le sue belle città d’arte, e purtroppo non per l’eccellente export di migliaia di piccole imprese, ai vertici del Dragone a Pechino forse non interessa un fico secco.