Calcio

José Mourinho è tornato (ma non è cambiato): perché il Tottenham è perfetto per la sua rinascita

Lo Special One è tornato in cima alla Premier League: con gli Spurs può tornare a recitare la parte che gli riesce meglio: quella del villain. La sua cifra è il conflitto, il suo superpotere è la capacità di presentarsi come cura per il sistema malato pur essendo uno degli attori principali di quel sistema. Una strana omeopatia che aveva funzionato con il Porto, con il primo Chelsea di Abramovich, con l’Inter del post calciopoli, ma che non poteva avere effetti con Real e United

Nessuno avrebbe mai pensato di ritrovarlo lì, seduto sulla cima della Premier League. Nessuno tranne lui, ovviamente. Perché uno che dichiara di venire “subito dopo Dio” deve avere una concezione piuttosto personale della parola “miracolo”. Un significato che è tornato d’attualità ora che José Mourinho ha iniziato a moltiplicare i pani e punti del Tottenham Hotspur. In 10 partite ne ha raccolti ben 21. Gli stessi del Liverpool campione in carica. E adesso quell’opera di evangelizzazione che il portoghese ha fatto partire nella scorsa stagione ha finalmente iniziato a convertire anche i più scettici. Le nuove scritture partono da un fotogramma di “All or Nothing”, la serie tv che Amazon Prime ha dedicato al Tottenham Hotspur. Mourinho è in piedi accanto al presidente Daniel Levy. I due si stringono la mano, mentre i fotografi premono il grilletto delle loro macchine digitali. “Sembra un matrimonio“, dice sorridendo lo Special One. Ed è vero. Solo che quasi nessuno capisce il senso di quelle nozze. Come può un vincitore seriale, un allenatore abituato a spolpare campioni, accettare la panchina di una club così disabituato alla vittoria?

Un interrogativo destinato a diventare mistero della fede. Almeno per qualche giorno. Ma c’è una scena che racconta anche l’altra faccia della medaglia. Stavolta si vede Mourinho chiuso nella stanza che era di Mauricio Pochettino. È seduto alla scrivania quando due voci velenose escono fuori dalle casse della televisione. “Ma davvero il Tottenham vuole giocare quel tipo di calcio?“, mitraglia la prima. “Credimi, Mourinho è andato“, risponde la seconda. Parole che rimbombano nella testa del mister come una bestemmia in una chiesa vuota. Perché lo Special One si porta dietro ancora le conseguenze della sua crociata contro il possesso palla, di quella guerra di religione che ha combattuto ai tempi delle merengues. L’illuminismo del tiki-taka del Barcellona contro l’oscurantismo delle ripartenze dei blancos. E il suo Real Madrid, che già era sporco e cattivo, è diventato anche brutto. Il suo calcio si è trasformato in qualcosa di vecchio, stantio, preistorico. E la sua esperienza al Manchester United sembrava averlo confermato. Uno degli allenatori più vincenti della storia del calcio stava per essere rottamato.

Poi un anno fa è arrivato il Tottenham. E la storia ha preso un’altra piega. Lo scorrere del tempo, infatti, ha dimostrato che gli Spurs erano perfetti per Mourinho. E viceversa. Qui lo Special One, che nel frattempo si è autoproclamato Mister Club, può tornare a recitare la parte che gli riesce meglio: quella del villain. La sua cifra è il conflitto, il suo superpotere è la capacità di presentarsi come cura per il sistema malato pur essendo uno degli attori principali di quel sistema. Una strana omeopatia che aveva funzionato con il Porto, con il primo Chelsea di Abramovich, con l’Inter del post calciopoli, ma che non poteva avere effetti con Real e United. Senza un passato prossimo di grandi successi (l’ultimo campionato vinto risale al 1961, l’ultimo trofeo al 2008), senza la necessità di dover vincere imponendo il proprio gioco e con la presenza di ottime individualità in rosa, il Tottenham è la squadra perfetta per essere modellata a immagine e somiglianza del suo allenatore, per scrivere ancora una volta l’epica tipica di Mourinho, dove i club molto ricchi battono i club ricchissimi.

Mister Club ha iniziato a martellare i suoi nuovi giocatori con il suo mantra: pressing alto, fiducia in se stessi, conquista delle seconde palle, lotta. Parole che sono state ripetute fino allo sfinimento, fino a farle sedimentare nella testa di ogni singolo membro della squadra. In Inghilterra dicono che Mourinho abbia usato il “brainwashing”, il lavaggio del cervello, per trasformare i suoi calciatori in guerrieri. Vero. Ma solo in parte. Perché il portoghese ha introdotto un altro concetto chiave: alzare l’asticella. Ha garantito a Kane un’esplosione sotto la sua gestione. Ha provato a strappare Dele Alli dal suo torpore (al primo allenamento lo aveva chiamato letteralmente “pigro del cazzo”). Ha fatto capire a Son di poter diventare un giocatore determinante a livello europeo. Perché per Mourinho il lavoro sulla testa è propedeutico a quello sul campo. L’idea non è quella di fornire uno spartito tattico da ripetere ancora e ancora e ancora in allenamento in modo da poter essere copia-incollato in partita, ma quella di allenare (e quindi affinare) la capacità dei suoi calciatori di improvvisare nei momenti più delicati della partita, di riconoscere immediatamente la scelta più redditizia.

La sua priorità resta sempre la difesa, il clean sheet è la stella cometa. Con Sissoko e Hojbjerg la linea difensiva a 4 si trasforma in un blocco da sei uomini. Ma con qualche variante rispetto al copione scritto nelle sue esperienze precedenti. Harry Kane è chiamato a prendersi il pallone in posizione più arretrata, in modo da aprire spazi e far partire le ripartenze con Son e Bergwijn. “Non penso che possa vincere la Premier essendo proattivo con squadre come il Liverpool e il Manchester City – ha scritto Gary Neville – ma se il Tottenham accetta questo tipo di gioco, se i calciatori lo accettano può trasformarsi in qualcosa di innovativo. Si tratta ancora di una mentalità difensiva, ma è una minaccia per tutti visto anche che stanno segnando parecchi gol”. Parole che rispecchiano alla perfezione la vittoria del Tottenham sul City, un 2-0 maturato con appena il 34% di possesso palla e 4 tiri (contro i 22 degli avversari) a favore degli Spurs.

Ma questo, da solo, non basta a spiegare l’improvvisa seconda giovinezza di Mourinho. In uno dei suoi illuminanti articoli sul Guardian, Jonathan Wilson afferma che il precampionato corto e gli impegni ravvicinati rendono più difficile la pianificazione del lavoro dei tecnici più “moderni”. “Di conseguenza – ha detto Wilson – le squadre si sono ritirate verso un approccio più basilare. Il calcio è diventato qualcosa di meno complesso e meno coeso. A questo si unisce il senso di stanchezza che aleggia intorno a tutti. Così questa stagione è diventata una prova di volontà. In una guerra di logoramento dovrebbe prevalere chi scava le trincee migliori”. Esattamente il terreno preferito da Mourinho, che sembra aver ritrovato la capacità di sfornare aforismi. Solo qualche giorno fa Mister Club aveva nascosto la sua squadra, affermando che il Tottenham era solo “un pony nella corsa per il titolo”. Una frase falsa. Una frase buona a far ricadere le pressioni sugli altri. D’altra parte Mourinho non è cambiato nemmeno un po’. Anzi, è ancora quell’egomostro a cui si addice molto una vecchia frase di Leo Longanesi su Malaparte: “È così egocentrico che se va a un matrimonio vorrebbe essere la sposa, a un funerale il morto“. È troppo presto per sapere se vincerà la Premier League. Però sappiamo che Mourinho è il capo che ognuno di noi dovrebbe avere almeno una volta nella vita.