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“Stuprata in Libia e da due anni coi miei figli in Tunisia in attesa del ricollocamento. Ma l’Europa è lontana”

Mariam ha 31 anni: è scappata dalla Sierra Leone, poi ha affrontato un lungo e drammatico viaggio da sola attraverso il Sahel fino alla Libia. Lì è stata vittima di violenza, dalla quale sono nati due gemelli: solo per loro non mette a rischio la sua vita imbarcandosi per l'Italia. E, nonostante le sofferenze che ha attraversato, da due anni è ancora in attesa del "resettlement"

“La violenza che ho subito resta e non si cancella. Adesso ne sto vivendo una seconda, diversa e forse più angosciante”. La violenza di cui parla Mariama è l’indifferenza delle istituzioni internazionali nei confronti della sua storia recente, della sua sofferenza. Mariama, proprio nella Giornata contro la violenza sulle donna, ha compiuto 31 anni. Gli ultimi due li ha trascorsi all’interno del centro di accoglienza dell’Unhcr a Medenine, in Tunisia, cento chilometri dal confine libico e seguono un anno decisivo nella sua vita: la scelta di fuggire dal suo Paese d’origine, la Sierra Leone, per liberarsi dal giogo di una setta in cui rischiava di cadere e il lungo e drammatico viaggio da sola attraverso il Sahel fino alla Libia. Un anno movimentato, per così dire, a cui hanno fatto seguito tempi di attesa e di speranza, quella di poter cambiare vita, in meglio.

Il passaggio dall’orrore alla speranza, oggi trasformata appunto in indifferenza, risale esattamente a due anni fa, nel novembre del 2018, quando Mariama è riuscita a scappare dalla prigione in cui era stata rinchiusa da una gang di Tripoli, passare in Tunisia ed essere accolta dalla Mezzaluna Rossa prima e dall’Alto commissariato Onu per i rifugiati poi. Eppure in questo lasso di tempo qualcosa di straordinario è accaduto: “Alla fine di giugno del 2019 ho partorito due gemelli, l’unico motivo in grado di convincermi, fino ad oggi, ad andare avanti nella speranza di ottenere un resettlement da parte dell’Unhcr. Una speranza che si va affievolendo giorno dopo giorno. Sono stanca, siamo stanchi io e i miei due figli. Da 18 mesi vivono dentro un modulo abitativo e giocano nel cortile del foyer. Fuori c’è la città, Medenine, e la difficoltà per noi migranti di integrarci con una popolazione spesso ostile. Sono arrivata molte volte vicina al punto di tornare in Libia e tentare la sorte a bordo di una barca diretta in Italia, a costo di rischiare la morte. Se non l’ho fatto è solo per loro, ma la pazienza ha davvero un limite”.

Un risultato importante sotto il profilo giuridico internazionale Mariama l’ha ottenuto con lo status di rifugiata che l’Unhcr le ha attribuito, rendendola, di fatto, trasferibile da un momento altro in un Paese europeo. Diverse volte quel momento sembrava ad un passo: “Nei mesi scorsi – aggiunge Mariama – mi hanno detto di prepararci perché presto avremmo lasciato la Tunisia, parlavano di Europa, di Svezia in particolare, ma anche dell’Italia. In quei momenti sono stata felice e l’adrenalina era al massimo, poi è andata diminuendo ed oggi non so più davvero cosa pensare. O meglio, lo so bene, so che non ce la faccio più a resistere, ad attendere un destino disegnato da altri e ripeto, non nego di aver pensato di organizzarmelo io il mio e il nostro destino. Specie durante i mesi estivi, dopo la prima ondata della pandemia, tante persone hanno lasciato il foyer per trasferirsi in Europa e ogni singolo giorno ho sperato che l’indomani toccasse a noi. La seconda fase del Coronavirus ha di nuovo rallentato le pratiche, ma ancora c’è qualcuno che se ne va da qui; sono contenta per loro, con la maggior parte di essi erano nate amicizie profonde, ma non nego di essere stata invidiosa”.

Ottenere un ‘reinsediamento’, la traduzione ufficiale del termine resettlement, di cui si occupa l’agenzia Onu per i rifugiati, equivale ad una sorta di terno al lotto. Chi pensa a criteri legati al profilo umanitario dovrebbe ricredersi. L’Unhcr propone ai vari Paesi, nel caso di Mariama europei, di accogliere un nucleo di persone provenienti dai centri di accoglienza disseminati in Africa, tra cui, appunto, quello di Medenine. I fascicoli delle persone da accogliere sono preparati dall’Unhcr e poi condivisi con le realtà istituzionali dei vari Paesi, ma è sempre a questi ultimi che spetta la decisione se e chi ‘adottare’. E qui si apre un capitolo davvero sorprendente: “Spesso si pensa all’esistenza di una sorta di griglia di sofferenza e di situazione familiare da cui attingere nel momento di trasferire le persone – spiega un membro di Unhcr Italia che preferisce mantenere l’anonimato -, ma non sempre è così. Anzi, quasi mai. Molti sono inclini a credere che le accoglienze siano decise dall’Unhcr. In realtà la scelta finale spetta agli Stati che devono ospitare queste persone e spesso la scelta ricade su persone sole, giovani maschi possibilmente, o comunque nuclei familiari ristretti. Famiglie numerose o madri con figli a carico rischiano di ricevere più ostacoli. Purtroppo l’aspetto umanitario spesso viene messo in fila, prediligendo altri fattori, per così dire di convenienza. Riassumendo, l’accoglienza è mirata al concetto di redditività, chi accoglie vorrebbe ricevere quanto meno un ritorno e soprattutto non vorrebbe accollarsi troppi costi gestionali. Insomma una nuova accoglienza umanitaria e la necessità di spendere risorse per mantenimenti e via discorrendo. So che quanto sto dicendo è difficile da comprendere ed accettare”.

Eppure a noi il concetto, pur comprendendone le ragioni e le finalità, stride. Conoscendo la storia di Mariama ci sembra una beffa oltre il danno. E per danno intendiamo le violenze sessuali di cui è stata vittima in quella prigione in Libia: “Prima di essere rapita ho tentato due volte di arrivare in Italia via mare – racconta Mariama -. La prima volta la barca è stata intercettata dalla guardia costiera libica che ci ha riportato indietro, nella seconda c’è stato un naufragio e ho rischiato di morire. Nell’ottobre del 2018 io ed altre donne siamo state rapite da una organizzazione criminale a Tripoli, tenute prigioniere in una casa e costrette ad atti di violenza sessuale dai carcerieri e da svariati ‘clienti’. Circa un mese dopo sono riuscita a scappare e a piedi, dopo giorni di cammino in mezzo al deserto tra Libia e Tunisia, ho oltrepassato il confine, sono stata intercettata e recuperata dalla polizia tunisina e portata in un centro di prima accoglienza della Mezzaluna Rossa”.

Il Novecento passerà alla storia come il secolo in cui lo stupro e le violenze sessuali sono stati usati come vere e proprie armi di guerra, specie nella Prima e nella Seconda Guerra Mondiale. Ci sono voluti gli orrori dei genocidi etnici in Bosnia prima e in Ruanda poi per definire questi atti come crimini contro l’umanità, ufficializzati poi dall’Onu nel 2008. Le violenze subite da Mariama e da migliaia di altre donne africane in fuga verso una speranza di vita migliore non rientrano nella categoria di stupri di guerra o di stampo etnico, ma in quella economica. In questo caso le vittime sono degli ‘assegni circolari’ per creare guadagni, costrette con la forza a prostituirsi e poi moneta di scambio con le organizzazioni che si occupano dei viaggi della speranza. Per Mariama le violenze carnali subite hanno prodotto un’altra conseguenza, stavolta gioiosa: “Una volta arrivata in Tunisia ho scoperto di essere incinta ed era ovvio come fosse accaduto, ma mai, neppure per un momento, ho pensato di non riconoscere la maternità, anche dopo aver appurato che si trattava di due gemelli. Mi avevano prospettato la possibilità di dare i due bambini in adozione, ma ripeto, anche se si tratta del frutto di rapporti violenti sono e restano i miei figli e la cosa migliore che abbia mai fatto nella mia vita”. Tra pochi giorni i due gemelli compiranno un anno e mezzo, godono di ottima salute e sono bellissimi.

(foto dei campi profughi in Libia e Tunisia di Pierfrancesco Curzi)