Diritti

Donne e lavoro, non avere un reddito è una forma di violenza (ed espone ad altra violenza)

Femminicidi, stupri, molestie: la violenza sulle donne è raccontata soprattutto attraverso questi gesti tremendi, che portano alla fine della vita di una donna oppure a un dolore estremo e forse insanabile. Eppure c’è un’altra forma, molto più diffusa, di violenza sulle donne e che al tempo stesso le espone ad altra violenza: ovvero la mancanza di un reddito proprio oppure di un reddito davvero sufficiente a vivere. Questa violenza la conoscono milioni di donne, visto che sei su dieci, in Italia, non hanno un’occupazione.

Dopo la pandemia, sono rimaste ulteriormente senza uno stipendio, o comunque senza un’entrata, quasi altre 500.000 donne, senza contare quelle che hanno perso il lavoro in nero, che non entrano nelle statistiche eppure sono tantissime. In pratica, sono andati bruciati tutti i posti di lavoro creatisi in questi ultimi dieci anni. Che dunque, con tutta evidenza, erano posti comunque a termine, precari, part time, o di collaborazione saltuaria. Eppure erano, comunque, qualcosa, una forma di reddito in quanto tale importante per le donne, sposate e non sposate.

Le bambini di ieri, nate negli anni Settanta-Ottanta, e quelle di oggi, nate nei Duemila, sono cresciute e stanno crescendo con la convinzione di diventare scienziate, astronome, veterinarie o comunque di lavorare in qualche modo. Hanno studiato e stanno studiando per diventarlo. I voti delle ragazze sono migliori, il numero di laureate maggiore e aumentano esponenzialmente. Sono di più anche le donne che prendono specializzazioni, master e che entrano nei dottorati di ricerca. Eppure, incredibilmente, quando si tratta di assunzioni, i numeri si invertono. Le donne, quando entrano, lo fanno appunto con contratti peggiori e stipendi peggiori, anche a parità di mansioni.

Per superare questa differenza devono lavorare il doppio, e lo farebbero anche se non si trovassero di fronte a un dilemma tremendo, perché gli anni della carriera sono gli stessi durante i quali la donna deve decidere o meno se avere figli. Chi decide per il sì, si trova di fronte a due opzioni comunque negative: o continuare a lottare per mantenere una posizione, cercando nel frattempo di curare i suoi figli, magari senza asili, servizi, sussidi, e conseguente esaurimento; o lasciare il lavoro, perché per rispondere davvero a tutti i bisogni di uno o più figli, e farlo bene, serve un tempo e un’energia infinite e non è certo la penosa retorica della “mamma imperfetta” a rappresentare la soluzione. Molte lasciano per necessità, altre lasciano perché spesso la maternità porta le donne ad andare in direzione dei propri desideri anche in ambito lavorativo. E quindi a scegliere lavori da fare in autonomia, piccole imprese, lavori creativi. Lavori di grande valore che però, ironia della sorte, sono mal pagati e senza tutele.

L’esito di tutto ciò è che le donne italiane, specie quelle con famiglia, hanno redditi bassi o nulli. E questo le espone ovviamene alla violenza in casa, non solo perché devono chiedere soldi per fare qualsiasi cosa, una condizione che si espone a trattative e scontri, ma perché – e qui il fatto di non avere uno stipendio diventa un incubo – non possono separarsi nel caso le cose vadano male. Oppure, sono molte a riportarlo, anche se hanno un reddito da lavoratrici autonome hanno paura del loro futuro in ogni caso, perché il lavoro autonomo, com’è noto, non produce pensione. E la prospettiva di una vita senza pensione è comunque terribile.

Molte donne giovani hanno capito che senza lavorare si rischia di finire in questa trappola di infelicità. E quindi cosa fanno? Semplicemente evitano di avere figli. Come ha detto proprio ieri il presidente dell’Istat Blangiardo, stiamo vivendo un tracollo demografico che nel 2021 ci porterà probabilmente per la prima volta sotto la soglia dei 400.000 nati (per avere un’idea, negli anni Sessanta nascevano un milione di bambini all’anno). E come potrebbero le giovani donne fare figli, se hanno impieghi instabili, eppure impegnativi, scarsamente remunerati e se non possono certo contare su relazioni sentimentali stabili, oltre che su un welfare degno di questo nome? Eppure, anche il non poter fare un figlio è una forma di violenza, se è vero che invece, intervistate, le donne italiane ne vorrebbero addirittura tre.

Infine, la differenza di reddito pesa anche sull’ultima parte della vita, visto che le pensioni di uomini e donne sono drasticamente diverse quanto a importi. E questo significa, di nuovo, non poter pensare a vivere in autonomia e spesso essere costrette ad assistere, spesso 24 ore al giorno, un uomo dal quale non ci s può separare. Anche questa, in fondo, è violenza.

Tante sono le cose che dovrebbero essere fatte per modificare questo penoso stato di cose. Sicuramente vanno nella giusta direzione gli sgravi ai contributi per le assunzioni femminili e l’assegno universale per i figli, pensati dall’attuale governo. Ma qui vorrei mettere l’accento soprattutto sulla cultura: quella italiana resta una cultura profondamente maschilista e non è una opinione ma un fatto. Siamo ancora in un paese in cui alla donna è consentito lavorare, purché non abdichi al suo ruolo principale: proprio quello che, di fatto, è impossibile, cioè lavorare e fare la madre full time. Non è un caso che durante la pandemia a prendere i congedi parentali sono stati il 90% donne.

Siamo ancora in un paese in cui nei talk show informativi ci sono donne, sì, ma in proporzione di un terzo quando va bene (nei giornali va ancora peggio, le firme di prestigio sono ancora quasi tutte maschili). Siamo ancora un paese che non ha mai avuto un premier o un presidente della Repubblica donna. Siamo ancora un paese in cui le donne non hanno il coraggio di farsi chiamare “avvocata” o “sindaca” perché pensano che sia più autorevole la versione maschile. Siamo ancora un paese in cui, quando una donna viene strangolata, uccisa a martellate o bruciata, i giornali titolano “Lei voleva lasciarlo”.

La lista potrebbe essere lunghissima. Esattamente come la strada ancora da fare.