Politica

Coronavirus, il tiro al bersaglio contro la Calabria sa un po’ di diversivo

Sarò di parte, perché ho iniziato la carriera scientifica in quella regione, ai piedi della Sila. Erano i tempi della Università della Calabria dei pionieri, nata negli anni 70 del secolo scorso da una visione culturale, sociale ed economica lungimirante, raramente replicata da questo paese nei successivi quaranta anni. Se la successiva proliferazione clientelare delle università di vicinato ha affondato in parte questo sogno, non ha impedito tutt’oggi a questo ateneo di competere con molte, premiate sedi dell’evoluto settentrione d’Italia, spesso con successo.

Essendo di parte, considero vergognoso il tiro al bersaglio contro la Calabria a causa della improvvisa “scoperta” di un piano regionale che non c’è per contrastare la pandemia. Decisori e media che si sorprendono per questa inattesa carenza sono pateticamente sorprendenti. E, ancor più quando, “scoprono” la situazione imbarazzante in cui si arrabatta la sanità regionale di quella plaga della Magna Grecia.

Non che manchino le ragioni; anzi, ce ne sono fin troppe: dall’eterno commissariamento della sanità allo storico, massiccio esodo dei pazienti verso i nosocomi del centro e nord Italia, istituzioni sanitarie che qualche vantaggio poi lo traggono da questa situazione. Al perenne limbo delle opere e delle infrastrutture incompiute o, addirittura, fatiscenti appena sono compiute, si può aggiungere il brand regionale della criminalità di maggior successo nel nostro paese e perfino oltreconfine; per giungere all’attuale, folcloristico reggente dell’autorità politica regionale. Ma si spara sulla Croce Rossa.

Il tiro a palle incatenate sulla Calabria in tema di pandemia sa un po’ di diversivo. Per alcuni, siamo in guerra contro il Covid-19. E l’inganno fa parte del gioco. Si ottiene un diversivo creando o ampliando la nebbia di guerra tramite la guerra psicologica, la guerra dell’informazione, gli inganni visivi e altri metodi più sofisticati, come l’uso strategico della disinformazione.

Questa iperbole, del tutto arbitraria, nasce dall’esame dei numeri che, come si sa, affascinano gli ingegneri (maschi) come e forse più delle belle signore. Nelle pandemie della storia, la gravità dell’evento in un dato contesto geografico viene misurata a posteriori da un indice, quello di mortalità, misurato in genere dal numero di vittime, in migliaia, per ogni centomila abitanti. Per esempio, la Spagnola di cent’anni fa, fece almeno 50 milioni di vittime su una popolazione mondiale di due miliardi di individui: un tasso di mortalità pari a circa 250 morti ogni 100mila abitanti. Non fu così dappertutto: se in Spagna furono ben 1.230 e in Italia 1.070, nel Regno Unito furono soltanto 580, 270 in Australia e 240 in Russia.

Il sito della John Hopkins University aggiorna ogni giorno i dati della pandemia, aggregati e disaggregati per paese e regione. Domenica 22 novembre 2020, l’Italia aveva già pianto 83 decessi ogni centomila abitanti, così come il Regno Unito; la Francia 73, la Germania 17 e gli Stati Uniti 78. Sullo stesso sito, i dati disaggregati per regioni indicavano in 203 le vittime della Lombardia, 145 quelle della Liguria e 128 quelle del Piemonte. A scala regionale, nella Île-de-France – la regione di Parigi – si contavano 80 vittime ogni 100mila abitanti e nella grande Londra 79. A competere con il dato lombardo, ma da lontano, trovavamo solo la regione di Madrid con 168 e lo Stato di New York con 176.

Sempre il data base della John Hopkins University riportava anche il dato relativo alla Calabria: 11 vittime ogni 100mia abitanti. Tra 11 e 203 c’è una certa differenza. Non c’è alcun dubbio che la questione meridionale e, soprattutto, calabrese vada affrontata. Non solo in campo sanitario. Lo affermava con chiarezza già un mitico testo di Giustino Fortunato più di un secolo fa (Il Mezzogiorno e lo Stato Italiano, Bari: Laterza, 1911). Nel caso della risposta italiana alla pandemia, però, la pagliuzza non deve nascondere la trave. E la trave è stata conficcata nel nord-ovest, l’area avanzata del paese.

Forse è troppo presto per riflettere sui diversi fattori della vulnerabilità, molto diversa sulla scala territoriale e a livelli di record nell’Italia nord-occidentale. Sono probabilmente numerosi, interconnessi e complessi. Tra questi, mi sento di poter trascurare, in primissima approssimazione, un qualche fattore genetico legato alla matrice territoriale originaria, perché la popolazione nel nord-ovest d’Italia comprende una significativa quota di immigrati calabresi, di prima, seconda e terza generazione.