Economia & Lobby

Coronavirus, ‘Imprese che resistono’ lancia una proposta radicale per frenare la crisi

Luca Peotta, un piccolo imprenditore cuneese che produce forni speciali, divenne famoso quando nel giugno del 2009 portò in piazza 1000 imprenditori, un evento ripreso anche dal The Wall Street Journal che rivelò le difficoltà quotidiane, ma anche l’umanità, di molte piccole imprese.

Gli imprenditori di “Imprese che resistono“, la rete fondata da Peotta, spesso sono ex-operai che mantengono con i dipendenti un rapporto solidale, magari continuando a pagare gli stipendi anche quando la ditta annaspa, strozzata dal mercato o dai debiti. Nella storia recente dell’industria italiana, “Imprese che resistono” può essere considerato anche come una reazione all’ondata di suicidi di piccoli imprenditori e partite Iva, che funestò gli anni successivi al 2011, quando la destra aveva portato il paese sull’orlo di un disastro “argentino”.

“Qualche anno fa conobbi un artigiano pugliese – racconta Peotta – il suo commercialista era scappato con la cassa e non aveva versato contributi per 17000 euro. L’uomo era disperato. Non poteva riscuotere la pensione e, con due figli, era costretto a cercare cibo nei cassonetti. Così ho deciso di aprire un conto cointestato, ho versato i 17000 euro che permettevano di sbloccare la pensione, e una volta che l’ha avuta lui me li ha restituiti. Il funzionario dell’agenzia delle entrate mi chiese: ‘Ma lei cosa ci guadagna?’. Così ragiona la nostra burocrazia.”

“Imprese che resistono” oggi è un gruppo di opinione che conta 3000 followers sparsi in tutta Italia. Pino Scalenghe, uno dei fondatori, ha due aziende di 30 e 33 operai a Nichelino (To), che fanno saldature speciali e tubi per motori pesanti. “Abbiamo subito il fermo totale dell’attività – racconta – con l’aggravante che i nostri forni lavorano a 1000-1100 gradi. Posso abbassare la temperatura a 900 gradi, ma non posso spegnerli, perché se lo faccio due o tre volte poi li butto via. Risultato: in due mesi di lockdown ci ho smenato 50.000 euro solo di corrente.”

Jessica Gaudenzi, 38 anni, ha lavorato 12 anni come responsabile commerciale di un’azienda marchigiana che distribuiva cibo di qualità, e per charme e capacità di comunicare potrebbe dare dei punti a molte conduttrici tv. L’anno scorso decide di cambiar lavoro aprendo in franchising uno studio di consulenza infortunistica: “Il progetto mi piace perché offre un vero servizio al cittadino. Se hai un incidente stradale, domestico o sul lavoro e hai bisogno di un avvocato noi offriamo una consulenza gratuita e patrociniamo la causa con gli avvocati nella casa-madre. I nostri onorari vengono pagati alla fine, insieme al risarcimento. Pensavo di aprire adesso, in aprile e invece, grazie alla pandemia, mi trovo disoccupata e con i costi dell’ufficio da pagare”.

Jessica mi segnala anche la storia di Stefania. Originaria della Toscana, da circa un anno gestiva un bar-ristorante a Fano. Dopo due mesi di chiusura, la sua situazione è drammatica: dorme in una roulotte e ha serie difficoltà anche per mangiare.

Alfio Magnesi è l’ad di Ideostampa, una tipografia di Colli al Metauro (Pu): “Siamo un’azienda di 15 persone – racconta – al momento lavoriamo in 4, massimo 5 persone per ordini che arrivano dal settore farmaceutico o alimentare. Ad esempio, abbiamo realizzato un contenitore per cibo pensato proprio per quei ristoranti che hanno dovuto convertirsi alla consegna a domicilio, ma con la paralisi del turismo prevedo perdite almeno del 30%”.

Scalenghe, sulle misure varate dal governo – ad esempio i prestiti da 25000 euro garantiti dallo Stato – pensa che “il problema delle aziende è un problema di conto economico prima che di liquidità: se io non fatturo perdo dei soldi e questo diventerà anche un problema di liquidità, ma non è dandomi la liquidità che risolvi il mio problema, perché i soldi che ho perso non li recupero e i prestiti prima o poi devo restituirli. L’unico intervento utile sarebbe un contributo a fondo perduto che copra i costi fissi che le aziende hanno sostenuto nel periodo di lockdown”.

Obietto che il governo non può offrire finanziamenti a fondo perduto, perché aumenterebbero un debito pubblico che è già il più alto d’Europa e che, oggi, è proprio quello che frena gli aiuti europei. “Ok – risponde Scalenghe – ma se migliaia di attività non ripartono perché non ce la fanno, la disoccupazione tra pochi mesi toccherà centinaia di migliaia di persone e a queste cosa dirà il governo? Che non ci sono i soldi per mantenerli? Dovrà ricorrere al reddito di cittadinanza, cioè aumentare lo stesso il debito pubblico, ma nel frattempo sarà stata rasa al suolo la base produttiva”.

Anche Jessica Gaudenzi è abbastanza scettica: “Molti miei contatti i 600 euro non li hanno mai visti, ma soprattutto manca un piano sul lungo periodo. Io sto sulla costa, sarebbe il momento di incentivare il turismo interno che faciliterebbe il distanziamento sociale. Ci sono itinerari bellissimi, ma se guardi la pagina Instagram del programma ufficiale ‘Turismo Italia’ è imbarazzante! Segnala 4 o 5 località, ma l’Italia è piena di luoghi e di storie e le storie andrebbero raccontate”.

Rispetto al macigno del debito pubblico, Scalenghe lancia una proposta radicale che nasce anche dal timore di un’evoluzione ‘greca’ della crisi: “Se noi chiediamo soldi all’Europa, col Mes, coi Recovery Bonds, riceveremo un prestito che dovremo restituire. Se non potremo farlo, finiremmo in bocca alla Troika che ci imporrà una patrimoniale. Allora io faccio una proposta diciamo così “patriottica”: il nostro risparmio privato – non la ricchezza che comprende anche gli immobili – ammonta a 4000 miliardi e il debito pubblico è 1700 miliardi. Perché noi italiani non ci uniamo e non ci facciamo carico del debito, magari anche solo per abbatterlo del 50%, cioè da 1700 a 800 miliardi? Cambierebbe tutto!

Potremmo versare un contributo a fondo perduto, ma chiedendo al governo altre 5 cose:

1) l’eliminazione di ogni tipo di anticipo fiscale in modo che le tasse vengano pagate solo sul reddito effettivamente prodotto ed incassato;

2) la sospensione delle imposte dirette (Ires-Irpef-Irap) per 12 mesi;

3) lo spostamento della tassazione dal lavoro ai consumi facendo così aumentare lo stipendio percepito;

4) un forte incentivo al consumo dei prodotti nazionali;

5) lo snellimento della burocrazia“.