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La storia di Memé, che ha terminato la sua migrazione nel cimitero di Niamey

L’obitorio dell’Ospedale Nazionale di Niamey si trova davanti al nuovo Centro di Conferenze Mahatma Gandhi, simbolo del dinamismo della cooperazione con l’India, è stato inaugurato quest’anno. La nuova costruzione ha sottratto ai cittadini l’ampio parcheggio, funzionale a coloro che formano i cortei di macchine che accompagnano i defunti ai cimiteri. Ora i parcheggi sono anarchici lungo la strada dove, davanti all’uscita dell’Ospedale, c’è chi vende tè e caffè agli clienti in attesa o di passaggio.

All’interno del cortile adiacente all’obitorio si trova un’ampia tettoia e panchine per amici e parenti dei defunti. Le donne, secondo un’assodata tradizione popolare islamica, sono escluse da questo spazio solo maschile. I cadaveri, avviluppati in stuoie fatte a mano, arrivano su un carrello spinto dai parenti e sono poi deposti direttamente sul retro del mezzo di trasporto e accompagnati per l’ultimo viaggio al cimitero. Stuoie più piccole, portate in braccio, indicano i corpi dei bambini, partiti presto e prima di aver vissuto. Loro sono deposti sul sedile posteriore dell’auto e condotti allo stesso luogo di sepoltura.

Il corpo di Memé si trovava custodito nella cella frigorifera numero due dell’obitorio. Altri corpi, rivestiti di stoffa, giacevano al suolo, in attesa di essere portati via o messi in una cella frigorifera lasciata libera dalla partenza di un altro corpo. Memé, di origine camerunese, rifugiata a Niamey dopo essere stata in Algeria e Libia, ha terminato nel cimitero cristiano della capitale la sua migrazione. I suoi tre figli si trovano al Paese e quando, il più grande di loro chiede della mamma, le sue amiche rimaste qui, nascondono la verità. Una breve preghiera ed un’altrettanto veloce benedizione del corpo prima di essere deposto in una semplice cassa di legno compensato e rivestito di finto zinco. Scortato da un gruppo di compatrioti, uomini e donne, il feretro è giunto al cimitero cristiano della città dove la tomba, scavata e costruita in cemento, era pronta per accoglierlo. Una semplice preghiera tra una croce, un cero e fiori finti ha preparato la sepoltura nella tomba che si è trasformata in silenziosa dimora per Memé, partita dal suo Paese anni or sono per cercare una vita migliore di quella che pensava di avere nel suo Paese natale, il Camerun.

Con guanti bianchi e mascherine colorate sul volto i suoi conterranei erano presenti attorno alla tomba per il commiato. Dopo il rituale formale di benedizione hanno preso brevemente la parola alcune sue amiche e amici. Il dottore che l’ha seguita durante la malattia ricordava, con delicatezza, il libro dal quale Memé non si era mai separata un solo istante. Si trattava di una bibbia che lei leggeva con assiduità, come per dare un senso al transito che si operava in lei, ammalata in un Paese straniero. Alcune signore, senza riuscire a trattenere le lacrime, tessevano le sue lodi e rimpiangevano la sua fedeltà e intraprendente fortezza. Una di loro, con un paio di stampelle, ricordava il paradosso che si stava vivendo in quel momento. Memé, abbandonata dal suo paese, detenuta e violentata altrove, giaceva in quel grembo di terra che non avrebbe mai potuto fare giustizia della sua migrazione spezzata. Le ultime parole dell’amica sono diventate un pianto e poi un grido che che il vento caldo di questa stagione ha cercato invano di far tacere. C’è chi riprendeva al cellulare le immagini del momento per inviarle poi al Paese come testimonianza perenne.

C’è chi ha buttato sul feretro una manciata di sabbia e chi, invece, ha versato il resto dell’acqua benedetta. Ma già era l’ora di tornare all’altra città, quella dei viventi, che dal cimitero non è lontana. Tra qualche giorno, in piena gestione delle restrizioni dovute alla pandemia, inizierà il mese di digiuno per i musulmani, maggioritari nel Paese, chiamato Ramadan. Tra confinamenti mentali e copri-fuoco prolungato per altre due settimane, sembra difficile poterlo celebrare con la consueta conviviale intensità. Anch’esso, come per la recente celebrazione della Pasqua per le piccole comunità cristiane in città, rischia di perdere molto dell’abituale senso di festa che caratterizza questi momenti di aggregazione popolare. D’altra parte anche il ‘Corona’, come viene chiamato familiarmente dalla gente che poco crede alla sua reale pericolosità, non è che sabbia che il vento caldo del Sahel porta lontano.