Società

Coronavirus, ‘la legge della vita’ sa infliggere lezioni molto dure. E ricordarle fa male

Ogni paese occidentale sta affrontando la pandemia con approccio diverso. Negli Stati Uniti la minaccia di chiusura ha provocato un assalto alle armerie; e si può capire: ogni anno ci sono quasi 20mila omicidi, 55 volte più numerosi di quelli italiani.

In Olanda, la notizia delle restrizioni ha, invece, innescato lunghe file ai coffee shop per fare scorte di cannabis prima della chiusura. Ogni mondo è paese, ma quello dei tulipani si sta portando ancora più avanti, rispetto ai suoi cugini europei. Seguendo l’esempio di Boris Johnson – protagonista di una rapida retromarcia, con la chiusura perfino di alcune linee del mitico London Tube, la metropolitana più antica del mondo – anche il premier olandese Mark Rutte aveva sposato la politica della immunità di branco.

L’incalzante diffusione dell’epidemia ha consigliato maggiore cautela e qualche precauzione, ma anche iniziative che fanno riflettere. Secondo alcuni giornali, i medici di famiglia olandesi stanno chiedendo ai propri assistiti più anziani di aderire a una sorta di patto faustiano a rovescio, che prevede due opzioni in caso di contagio: acconsentire o rinunciare alla ventilazione artificiale.

L’iniziativa trova poche conferme sui media nazionali e internazionali. Soltanto una nota vaticana puntualizza in modo fermo che “non si possono discriminare gli anziani”. Ma la notizia di questa bella pensata è stata accolta assai male dai baby boomer, miei coetanei, che su questo argomento stanno inondando le chat e i social con cui colmiamo i vuoti di questo tempo sospeso.

Qualcuno ha suggerito una lettura affascinante. The law of life (“La legge della vita” nell’edizione italiana disponibile gratuitamente in rete) è un racconto breve pubblicato all’inizio del 1900 da Jack London, lo scrittore prediletto di mia madre (classe 1906). Forse per questo non l’avevo mai apprezzato. Non è giusto che i figli seguano una propria, originale strada?

Sono sei pagine dense che si leggono rapidamente. Protagonista è il vecchio Koskoosh, padre del capo di una tribù eschimese. È un uomo cieco e zoppo che arranca nella neve insieme alla propria tribù nomade, alla ricerca di lidi migliori dove sopravvivere all’inverno. Il vecchio capo, ormai un intralcio al cammino del branco verso la salvezza, viene perciò abbandonato dal figlio sulla neve, dove affronterà da solo la morte davanti al fuoco che si spegne, circondato poco a poco da un altro branco, quello dei lupi.

“Perché aggrapparsi alla vita? Si chiese, e lasciò cadere il bastone ardente nella neve. […] Koskoosh rivide ancora una volta l’ultima difesa del vecchio alce maschio (di fronte ai lupi che lo assediavano) e poi abbandonò stancamente la testa sulle ginocchia. Cosa importava, dopo tutto? Non era la legge della vita?”. Per Koskoosh, sia i vecchi alci sia gli uomini vecchi devono adeguarsi alla stessa legge. La vita affida a entrambi il proprio compito e, quando questo si esaurisce, tanto l’alce quanto l’uomo devono morire.

Quando una persona non può più contribuire alla causa del branco viene lasciata indietro. Il vecchio capo tribù non fa eccezione. È lasciato morire. E Koskoosh lo accetta come una soluzione naturale, in paziente attesa di congelare. Alla fine, invece, sono i lupi a scovarlo – così come nella visione dell’alce morente che ha tormentato quella attesa solitaria – e, forse, saranno loro a finirlo.

Una lezione molto dura per la mia generazione che, tra infiniti errori, qualcosa di buono ha pure fatto, diffondendo nel mondo principi di benessere quali la sicurezza sociale e l’assistenza sanitaria e sociale. Ma nella tribù della storia, la sopravvivenza del branco dipende dal contributo di tutti.

Ricordarlo fa male. Fa riflettere sui conflitti primari che guidano questa storia come la storia di ognuno di noi: l’uomo si confronta con la natura, con la società, con se stesso. Fa meditare sulla dura crudeltà del mondo naturale. E sull’inevitabilità della morte.