Società

Coronavirus, altro che Manzoni e la peste: i media dovrebbero parlare di più di Boccaccio

Mi ero ripromesso di non parlarne apertamente e terrò fede alla mia promessa. Non metto naso per suggerire cosa fare o non fare, ma vorrei spezzare una lancia in favore del Boccaccio.

In questi giorni i media, quelli che vogliono fare i colti, si spellano i polpastrelli citando a destra e manca il Manzoni. Il Manzoni che descrisse la peste a Milano, gli untori, etc. Ricordiamoci una cosa: il Manzoni la peste non l’ha vista manco con lo specchietto retrovisore. Ne scrisse in una sua famosa opera: i Promessi sposi.

Ne scrisse perché, dopo tutto, era un colpaccio di scena (per l’epoca): una bella tragedia, sullo sfondo c’è la travagliata ricerca di Tramaglino, ci stava bene. C’era una sorta di catarsi duplice per il lettore: il povero Tramaglino e poi la peste. E il lettore medio del Manzoni riusciva a “spurgare” i suoi mali, le sue sofferenze (fisiche o psicologiche) leggendo che “bè dai in passato anche loro tenevano un poco di sfortuna”.

Parzialmente passata l’isteria di massa dei media, che in precedenza si eran dati alla pazza gioia mettendo “Coronavirus” praticamente ovunque, passato il momento del “moriremo tutti” (qualcuno è morto purtroppo), i giornali – ora forse redarguiti a dovere – si son messi a parlare di rinascita di Milano.

E’ venuto fuori anche un bel video. Tra un super proclama e l’altro di rinascita almeno un’iniziativa di ristorazione pratica l’ho vista: un singolo pizzaiolo ci si è messo di impegno e offre pizze gratis a infermieri e dottori. Spero che i ristoratori che inneggiano alla rinascita di Milano, con slogan più o meno mediatici, facciano lo stesso. Però l’ombra del Manzoni ancora aleggia tra noi, con la sua pedante visione degli untori.

Allora perché invece di citare il Manzoni, che come detto la peste non l’ha mai vista nemmeno per sbaglio, non andiamo a prenderci il Boccaccio? Un autore ahimè spesso trascurato nell’insegnamento scolastico. Perché mentre il Manzoni ci dava giù con lo stile “romanzo di formazione”, a modo suo il Boccaccio parlava di sesso e di leggerezza.

Quando nel 1347 (giorno più giorno meno) la peste bubbonica giunse dall’Oriente il Boccaccio stava a Firenze (quanto meno di passaggio, in merito le cronache non sono precisissime) e diciamolo, vedersi gente che stramazzava per strada, il puzzo dei cadaveri putrescenti, l’estetica stessa dei cadaveri non erano certo un bello spettacolo. Boccaccio era, per gli standard di oggi, un figlio di papà che dedicava parte del suo tempo agli affari di famiglia (commercio e relativa finanza) e parte alla letteratura.

Scrisse il Decamerone, un’opera leggera piena di sesso, scherzi volgarotti e ironia. Un’opera che nelle scuole italiane viene trattata quasi con dispetto dai docenti. Dopo tutto immaginatevelo voi, un docente di liceo parlare di sesso ad adolescenti in overdose da ormone pazzo.

Quindi sul Decamerone c’è sempre uno slalom. Meglio trattare la peste l’anno successivo, se proprio dobbiamo parlare di malattie, di calcare la mano con un bel romanzo di formazione come i Promessi sposi.

Ecco forse, penso io, senza nulla togliere alle scelte di ogni governo nazionale di creare zone di quarantena e altre soluzioni che io trovo sacrosante e doverose, il mondo dei media potrebbe cominciare a parlare di più del Boccaccio e del Decamerone. Almeno lui sì che l’ha vissuta, la peste, e ha cercato di porvi rimedio, a modo suo, da artista: scherzando e rendendo più leggera la sofferenza fisica e psicologica di tutti i giorni.

@enricoverga