"I bambini raccontano la Shoah" raccoglie testimonianze di autori come Lia Levi, Ela Pasternak e Uri Orlev ripercorse attraverso le illustrazioni di Valeria De Caterini. Colloquio con la curatrice Maria Teresa Milano: "I ragazzi hanno a disposizione un'enorme quantità di informazioni: imparare a saper scegliere è fondamentale"
Nei suoi incontri con i ragazzi a scuola, lo scrittore israeliano Uri Orlev tiene sempre a mente il giorno in cui suo figlio gli chiese di raccontargli le sue esperienze nei campi di sterminio nazista: “Si domandò cosa avrebbe potuto capire un bambino e concluse che la risposta era solo una: la paura. È questo quello che dobbiamo fare per trasmettere la memoria della Shoah. Dare ai ragazzi un quadro al quale possano avvicinarsi”. A parlare è Maria Teresa Milano, dottore di
Nel volume, tra le altre storie, anche un approfondimento sul ghetto di Terezin, considerato “il ghetto modello” dalla propaganda di Hitler. Milano l’ha visitato per la prima volta nel 2009 e ci torna periodicamente con le scuole. Nato come “campo di raccolta” dove internare gli ebrei cechi residenti nel protettorato di Boemia-Moravia, da qui partivano le deportazioni verso Est. Dal gennaio del 1942 comincia a ospitare artisti e intellettuali di religione ebraica provenienti da tutto il Reich. In poco tempo diventa la vetrina del regime nazista, dipinto al mondo esterno come una sorta di città felice regalata dal Führer agli ebrei. Musica classica, jazz, pittura, fini riflessioni intellettuali: secondo la propaganda, in questa fortezza poco distante da Praga si vive fra arte e allegria. Vengono aperti finti dipartimenti di economia, sanità, lavoro. Circolano banconote di tutti i tagli, che non hanno valore: sono false, come tutto il resto. “Definirlo lager è sbagliato, (non lo era) ma questo non deve bastare a scaricare la coscienza: era un’autentica macchina della morte”, spiega Milano.
In totale vengono internate a Terezin circa 140mila persone, di cui 87mila vengono deportate. Al momento della Liberazione, i sopravvissuti nel campo sono 17.320. “Chi stava nel ghetto moriva di stenti, di fame, di malattia. Il sovraffollamento era un’altra piaga della struttura. Alla fine, vennero introdotti forni crematori per bruciare i corpi. Erano troppi”. Circa 25 persone per stanza, uno spazio vitale di quasi 1,6 metri quadrati, 200 vittime al giorno per malattie e malnutrizione. Con il tempo, qualcuno comincia a leggere poesie o a fare musica, senza spartiti, di nascosto, negli attici dell’edificio. “I nazisti lo scoprono e lasciano fare, sempre a fini propagandistici. Per i prigionieri era un modo di sentirsi ancora essere umani e di non perdere la dignità”, spiega Milano.
Come fare, allora, per trasmettere il passato a studenti che – almeno a livello temporale – saranno sempre più distanti dagli orrori del regime nazista e fascista? “Prima di tutto, distribuire le informazioni in base all’età: è impossibile capire la complessità di alcuni contenuti se si è troppo piccoli”, spiega Milano. “Poi, più che lavorare sulla ripetizione degli eventi, è importante concentrarsi sulla ripetizione dei comportamenti umani, invitando gli studenti a chiedersi come si comportano davanti al male. Se non sono chiamati a interrogarsi in prima persona diventa un esercizio mnemonico, e basta”. La parola ebraica per indicare la memoria, spiega Milano, è Zachor, che indica la necessità di trasmettere il passato di generazione in generazione. Un passato di dolore e resistenza: “Terezin è l’esempio di quest’ultima. La lotta per resistere è un tema che va trasmesso ai ragazzi, senza pretendere di metterlo sulla bilancia a confronto con il male che è stato fatto: questo, nessuno potrà mai risarcirlo. La storia non va a pesi”.