Cinema

#FacceEmozioni: a Torino una mostra sulla rappresentazione visiva delle passioni

Restano pochi giorni per andare alla Mole Antonelliana di Torino a vedere la mostra #FacceEmozioni. 1500-2020: Dalla fisiognomica agli emoji, a cura di Donata Pesenti Compagnoni e Simone Arcagni, in corso fino al 6 gennaio.

Che cosa ci fa una mostra del genere in un luogo come la Mole, da anni diventato il Museo Nazionale del Cinema? Fin dai tempi del muto, il cinema è stato un luogo privilegiato di espressività di caratteri e passioni, soprattutto grazie al primo piano che fissava nei volti i tipi del lover come del cattivo, del timido come del burbero, e registrava le emozioni con il gioco delle variazioni microfisionomiche.

La “scoperta” del primo piano come veicolo delle emozioni ha poi consentito al grande cinema narrativo di raccontare storie complesse, in cui le vicende dell’animo prevalevano sulle azioni degli uomini e le condizionavano. Il volto è diventato così, come diceva Jean Epstein, “l’anima del cinema”. Ma la rappresentazione delle emozioni non è certo una prerogativa del cinema né una sua scoperta.

La fisiognomica e la patognomica, cioè la rappresentazione dei caratteri degli uomini e quella delle loro passioni, hanno stimolato filosofi e pittori, scienziati e antropologi. Se già Leonardo studiava i moti dell’animo a partire dai tratti del volto, fu Giovan Battista Della Porta a sistematizzare questa “pseudoscienza” nel De humana physiognomia della fine del Cinquecento, in cui sviluppava l’analogia tra uomini e animali per descrivere i caratteri.

E poi, in un percorso che si snoda attraverso gli ultimi cinque secoli, le tappe furono molte: dallo studio dei temperamenti di Dürer ai trattati seicenteschi di Descartes, più filosofico, e di Le Brun, più artistico, sulle passioni. Fino ad arrivare da un lato all’antropometria di Franz Joseph Gall e all’antropologia, anche nella sua versione criminologica, dall’altro alle arti visive moderne.

Nel 1906 l’antropologo napoletano Abele De Blasio invia a Lombroso un Album dei delinquenti napoletani, in occasione di un Congresso di Antropologia Criminale, organizzato per categorie: falsari, ladri, prostitute ecc. Attraverso l’analisi delle dimensioni del volto, dei rapporti tra le sue parti (altezza della fronte, distanza degli occhi ecc.) o degli aspetti generali, lo studio della facies salda medicina e lettura politica in quella che Michel Foucault avrebbe chiamato una “anatomia politica”.

Parallelamente le arti visive sfruttano il potenziale narrativo e rappresentativo della fisiognomica. Non è soltanto il cinema a valorizzare questo elemento: nell’Ottocento la fotografia, la caricatura, i vetri della lanterna magica trovano negli elementi fisiognomici i presupposti per una rappresentazione sintetica che fissi rapidamente tratti umani e passioni. E i manuali per gli attori, sia di teatro che di cinema, canonizzano le forme della rappresentazione.

Dopo il cinema, cioè oggi, gli emoji: ci sarà una ragione se l’Oxford Dictionary ha consacrato parola dell’anno 2015 un pittogramma, la faccina che piange lacrime di gioia, rendendo peraltro subito obsolete le tastiere dei computer. La sintesi si sostituisce sempre più alla descrizione analitica, le immagini alla parola, come già vedeva nel 1924 Béla Balázs ne L’uomo visibile.

E se la computergrafica scrive le passioni, la computer vision le analizza: basta girare per la rete per trovare app che analizzano le nostre espressioni facciali e le traducono, come è esemplificato anche nella mostra della Mole. La quale ha il suo fascino non solo nella lunga cavalcata che va dal Cinquecento a oggi e domani, ma anche nella sua collocazione fisica, lungo il corridoio a spirale che avvolge dall’interno la Mole, e che sale in una sorta di ascesa verso l’etereo, su su lungo il paradiso delle immagini.

Resta la domanda iniziale: perché una mostra che unisce Della Porta e Lavater, Lombroso e le maschere teatrali, Chaplin e gli emoji sta al Museo del Cinema? La risposta sta forse nel nome della fondatrice del Museo, quella figura un po’ maniacale e un po’ visionaria che fu Maria Adriana Prolo, la quale, già negli anni Cinquanta, prima ancora che il Museo vedesse propriamente la luce, si mise a raccogliere, anche a caro prezzo, i manuali cinquecenteschi di fisiognomica. La storia della rappresentazione visiva dell’anima e delle passioni culmina nel cinema, ma segue un lungo percorso, nel quale il futuro viene dal lontano passato.