Cronaca

Da ex questore ho assistito a molti delitti commessi da uomini in divisa. E la risposta deve essere sempre una sola

La settimana scorsa due carabinieri sono stati condannati per l’omicidio preterintenzionale di Stefano Cucchi, ed è imminente l’inizio del clamoroso processo sui depistaggi delle indagini. Quella dei reati commessi dalle Forze dell’Ordine è una tematica vitale, per la vita di un Paese democratico. In molti anni chi scrive ha dovuto confrontarsi con numerosi casi di delitti commessi da appartenenti alle forze di polizia. Su Google la casistica è purtroppo significativa ma, anche se auto citarsi non è bello, l’esperienza personale supera ogni ricerca in rete. Per evitare negli esempi riconoscibilità e accuse di parzialità, ometterò di dire a quale corpo appartenevano i responsabili e le coordinate di spazio e di tempo di certi eventi.

Ho visto investigatori corrotti che trafficavano con agenzie di pratiche; un altro catturato in flagranza e armi in pugno durante l’ennesima rapina in banca; ho visto esponenti delle Forze dell’Ordine che, in situazioni di massa, si sono lasciati andare a eccessi delittuosi, e altri mettersi al servizio di agenzie private utilizzando la propria competenza e il proprio potere per sfruttare i database del ministero dell’Interno e incrementare, in modo illegale, i limitati mezzi di indagine del committente. E potrei continuare. Conosco l’obiezione, perciò voglio essere assolutamente chiaro: tutti i casi che ho citato sono stati trattati con il massimo rigore e i soggetti implicati sono finiti in galera o, se ciò non era possibile per ostacoli procedurali, sono stati denunciati.

In un mondo in cui, per essere ottimisti, il dieci per cento dei cittadini delinque, non possiamo aspettarci che quello stesso dieci per cento non esista anche nelle Forze dell’Ordine.

È vero, ci sono dei test psicologici da affrontare e superare, prima di diventare poliziotti, carabinieri, finanzieri o agenti di custodia, e se non si superano non si passa. Ma servono a indicare la salute mentale di un soggetto, non la tenuta della sua onestà. Quando chi veste una divisa o la toga di un magistrato commette dei reati, contravvenendo al proprio giuramento di fedeltà al Paese, la rabbia che proviamo si decuplica rispetto a quella che si prova nei confronti di un normale delinquente.

I corpi dello Stato devono essere i primi a rispettare la legge. Perché sono loro che ci sanzionano, che ci fermano, che ci arrestano; sono loro a essere depositari di un potere che nessun altro ha, e vedere questo potere sfruttato per fini disonesti fa rabbia. Eppure succede e, a parte le esperienze personali, di quando in quando le cronache ce lo ricordano e sarebbe illusorio, oltre che ingenuo, pensare che il problema non esista.

La domanda allora è un’altra, ed è importantissima: come si comportano le Forze dell’Ordine quando scoprono del marcio nelle proprie file? La risposta è una sola: colpiscono senza alcuna benevolenza. Quando un “collega” commette un reato, lo si indaga in modo ancora più deciso rispetto al normale delinquente. Certo dispiace, magari lo si conosce pure, però ha infangato non solo l’uniforme che indossa, ma anche e soprattutto il giuramento fatto alla Repubblica e ai cittadini. Esistono delle regole non scritte, in questo campo. Una è che, quando un corpo scopre che un appartenente a un’altra forza di polizia sta commettendo reati, a meno che non si sia in flagranza, passa automaticamente l’indagine al corpo di appartenenza nella certezza che questa andrà a compimento, ed è una regola che seguono anche i magistrati delle procure.

L’altra è che non si copre nessuno, non si depista, non si occulta. Anzi, più un corpo è in grado di far pulizia al proprio interno, più acquista affidabilità agli occhi dell’opinione pubblica. Indagare sui propri colleghi è deprimente, ma è un dovere cui nessun appartenente alle Forze dell’Ordine si sottrae, perché tutti percepiscono l’importanza e la forza che conferisce il riuscire a eliminare scorie di illegalità dalle proprie file.

Sono regole cui non si sfugge, ecco perché, oltre al dolore immenso per la morte del giovane Stefano, la tragica vicenda Cucchi ci colpisce ancora di più: si è contravvenuto a una regola etica. A quanto sembra infatti, ma questo lo stabilirà il processo che sta per cominciare, si è cercato di depistare le indagini e per anni sono state imputate – e semidistrutte socialmente, anche se poi assolte – persone innocenti che indossavano altre divise. Persone che, senza la tenacia del pm Giovanni Musarò, di Ilaria Cucchi e di Fabio Anselmo, sarebbero andate incontro a un’infamante condanna per omicidio. Però in questo caso lo Stato di diritto ha vinto, e oggi l’Arma si è ovviamente schierata al fianco della famiglia Cucchi e della ricerca della verità, anche se sgradevole.

Ma le regole, anche se consuetudinarie, sono pur sempre regole e non vanno aggirate, perché porta sempre male. Un’affermazione di principio, ma dagli effetti concreti, che non deve valere solo per il caso Cucchi.