Società

Possiamo tutti parlare dell’amore. Ma non necessariamente definirlo

Io non (o)so definire l’amore. Apro una parentesi sull’amore, raro caso in cui la parentesi racchiude al proprio interno molto più di quanto lasci all’esterno, in quanto l’amore è argomento vasto, accessibile a tutti e incomprensibile a molti. Materia di affanno e di diletto, amore è argomento da chiacchiere da bar, ma è anche ispirazione dei poeti. Siamo o siamo stati tutti innamorati; questo ci dà il diritto di parlare dell’amore, ma non necessariamente di definirlo, perché definire significa anche limitare.

Quando parlo dell’amare devo essere disposto ad accettare che parlo del mio modo personale di esprimerlo: amare è talmente intimo da non potersi disconnettere dalla soggettività. In parte il mio modo di amare sarà rappresentativo del modo di amare degli altri, in parte sarà rappresentativo di quanto io posso essere diverso dagli altri. L’amore è il figlio non voluto di coerenza e contraddizione.

Si afferma che l’amore non può essere presente laddove c’è violenza e non di rado è drammaticamente vero che ci sono relazioni tenute insieme solo dalla paura, dall’isolamento, dall’abitudine, da condizioni economiche precarie. Però talvolta persiste un legame affettivo che non sta a nessuno giudicare; non il sentimento sicuramente, ma al limite evidenziare al massimo i rischi e le conseguenze di un rapporto in cui si eserciti violenza e prevaricazione.

Mai sostituire le proprie idee e i propri vissuti a quelli di coloro che vivono una relazione, anche se violenta. Scambiare i propri bisogni per quelli dell’altro è tipico di colui che prevarica di abitudine: non incappiamo in questo errore, non esistono intenzioni che, per quanto nobili, non possano produrre conseguenze nefaste. Non dobbiamo scegliere al posto di chi subisce un torto, un’ingiustizia, un danno, ma dobbiamo aiutarlo a scegliere quello che ritiene più opportuno, rispettando i suoi tempi, perché è l’unico modo che accelera paradossalmente una presa di coscienza. Quando ci si sente accolti, capiti, si sente che l’altro ci ritiene in grado di scegliere, si fida: è proprio allora che si fanno le scelte più giuste per la propria vita e questa “magia” la vediamo realizzarsi in terapia ad esempio.

L’amore, sebbene conosciuto da tutti, sono convinto che si ribelli a ogni forma di definizione che lo voglia delimitare. Prendiamo l’amore dei genitori verso i figli: credo possa considerarsi una delle forme più indiscusse di affetto che un uomo e una donna possano provare. Essere genitori implica voler bene ai propri figli, ma non implica necessariamente fare il loro bene; spesso molte intenzioni tengono conto più dei desideri e dei bisogni degli adulti che dei bambini.

Basti pensare a come schiaffi e botte per educare i figli siano stati metodi largamente usati e legittimati e, purtroppo, lo siano anche oggi (per parlare solo di violenza fisica, tralasciando quella psicologica); eppure sappiamo che quei genitori, magari anche i nostri genitori o proprio noi come genitori vogliamo un bene incondizionato verso i figli. C’è un modo sano di amare che lascia l’altro libero, ma lascia sentire anche la nostra presenza come una sicurezza e c’è un modo disfunzionale di amare che imprigiona l’altro, lo schiaccia della nostra presenza e lo fa sentire insicuro.

Amare non è possesso dell’altro così come aiutare non è pretendere di sapere cosa è meglio per l’altro o dare delle definizioni dei sentimenti che possono non essere quelli che pensiamo una persona debba o possa provare. La violenza non è una forma di amore, ma come si debba amare è solo prerogativa di chi si trova in quel sentimento.

Vignetta di Pietro Vanessi