Mondo

Catalogna: Barcellona brucia, Madrid attende. E non basta cantare ‘Bella ciao’ per aver ragione

Concita De Gregorio su Repubblica del 15 ottobre affiancava i curdi assediati dalle truppe di Erdoğan ai ragazzi catalani che occupavano l’aeroporto El Prat nelle ore successive alle condanne ai capi dell’indipendentismo. Gli uni e gli altri, si legge nell’incipit dell’articolo, “uniti” nell’intonazione di Bella ciao, con i giovani occupanti europei – in verità in condizione decisamente più comoda delle combattenti curde – posizionati di fronte a poliziotti con fucili carichi di proiettili di gomma.

Un’immagine suggestiva ma vuota; la cronaca dei giorni successivi ha detto ben altro. Ai cortei e alle occupazioni pacifiche si sono presto mescolati gruppi consistenti di violenti che hanno messo Barcellona a ferro e fuoco. Huele a quemado (“sa di bruciato”) è il refrain che ascolti in strada tra la gente che, nei quartieri più colpiti, al mattino fa sommaria conta dei danni nell’aria irrespirabile per i roghi di cassonetti della notte prima.

Non basta cantare Bella ciao, seduti in sit-in all’aeroporto, per essere dalla parte della ragione. Nessuno Stato moderno può vedere scissa la propria integrità territoriale sulla base di un referendum illegale: la Costituzione del 1978 non lo consente, malgrado l’articolo 92 – invocato spesso dagli indipendentisti – permetta che le decisioni politiche più importanti possano essere assoggettate a referendum consultivo. Per opportunità si omette di dire che la consultazione dovrebbe coinvolgere l’intera comunità nazionale.

I leader indipendentisti non si sono occupati dei principi costituzionali, né dell’altra metà dei catalani: non si sono interessati di dare spazio alla politica intavolando trattative con il governo nazionale. Essi hanno preferito costruire muri, creare contrapposizioni frontali in grado di moltiplicare simpatie e consensi nelle urne.

Eppure lo stesso Tribunale costituzionale – tanto inviso ai separatisti – già in una sentenza del 25 marzo 2014 pronunciata su un ricorso del governo contro una risoluzione sovranista della Generalitat, raccomandava al Parlamento catalano di proporre al Congresso di Madrid la riforma degli articoli di apertura della Carta fondamentale perché si riconoscesse il diritto di autodeterminazione delle regioni autonome. Operazione praticabile, visto che i consessi regionali hanno competenza a promuovere riforme costituzionali e il Parlamento di Barcellona ben potrebbe appellarsi all’articolo 149 (comma 1, numero 32) per chiedere allo Stato centrale di consultare il popolo per una riforma costituzionale di tale segno. Sembra che non convenga a nessuno risolvere la questione.

Mentre una parte di Barcellona era avvolta dai fumi delle barricate, Quim Torra, il presidente della Generalitat, non ha saputo dire altro che un nuovo referendum per l’autodeterminazione (altra consultazione non consentita) va indetto già in primavera. Nuova benzina versata sul fuoco dei cassonetti bruciati dai facinorosi, altre parole lanciate al vento per non trovare soluzioni.

Madrid dal canto suo guarda, aspetta, sottovaluta. Si nasconde dietro le pagine di una sentenza che non può ricucire fratture sociali laceranti. Si preoccupa di una mera gestione dell’ordine pubblico – tutt’altro che facile è il coordinamento tra le forze dell’ordine regionali e la polizia nazionale -, ma si guarda bene dal proporre un tavolo che rilanci un nuovo Estatut più ricco di autonomia, in materia fiscale ad esempio. Magari seguendo il modello dei Paesi Baschi, dove l’attribuzione di maggiori poteri alla regione è apprezzata dalla popolazione. Tanto che oggi, secondo i sondaggi di Euskobarometro, solo il 31% dei baschi voterebbe per l’indipendenza della piccola comunità del nord.

In Spagna l’instabilità politica è oramai una costante, e poco c’è da aspettarsi da leader politici che non sono capaci di trovare un accordo per dare un governo al paese. Negli ultimi quattro anni sono state ben quattro le chiamate alle urne per le elezioni generali, l’ultima lo scorso 28 aprile e la prossima, dopo soli sei mesi, il 10 novembre.

Uno stallo che ha reso impossibile l’apertura di un dialogo sulla questione catalana e poco si vede sulla linea dell’orizzonte. Spesso, nei discorsi o nel simbolismo proprio del separatismo, si richiama come modello l’orgoglio scozzese, tuttavia si dimentica che oltremanica si votò per l’indipendenza solo dopo essersi legittimati a vicenda mediante l’Accordo di Edimburgo del 2012 avente una chiara base giuridica. La rubrica del trattato bilaterale diceva tutto: Agreement between the United Kingdom Government and the Scottish Government on a referendum on independence for Scotland.

La Spagna non è la Gran Bretagna, ognuno guarda al suo elettorato. “Manca finezza” affermava con un filo di voce Giulio Andreotti commentando la politica spagnola in una sua visita a Madrid durante la transizione democratica. E manca finezza anche nell’azione di Matteo Salvini che, durante la manifestazione di piazza San Giovanni di sabato scorso, ha mandato “un pensiero al popolo catalano e al popolo britannico, terre nelle quali il voto conta”.

L’ex ministro ignora che l’eccesso di consultazioni, e di referendum illegali, è uno dei mali della Spagna contemporanea: sottovaluta inoltre che persino i più accesi separatisti catalani si guardano bene dal prospettare un avvenire con meno Europa. Chissà, forse è solo superficialità o strumentalizzazione sottile. Nulla di nuovo.Oppure si tratta del sogno di un futuro con frammentazione su base regionale anche da noi? Huele a quemado, ovunque.