Cronaca

Pignatone in Vaticano, la scelta di un pm antimafia non si improvvisa in poche ore. Papa Francesco manda un chiaro segnale

La nomina di Giuseppe Pignatone a presidente del tribunale di prima istanza del Vaticano può essere letta come un atto di lungimiranza o di disperazione. Per il momento scelto l’annuncio riflette certamente la disperazione di Francesco per trovarsi nuovamente alle prese con uno scandalo finanziario in Curia, che cade in quel “secondo tempo” del pontificato bergogliano rivelatosi durissimo per chi voluto il nome di Francesco d’Assisi.

Il 2018 è stato l’anno in cui lo scandalo degli abusi in Cile ha messo a dura prova il prestigio di papa Bergoglio, disinformato e ingannato dalle più alte gerarchie cilene sull’appartenenza di un vescovo (da lui nominato) al giro stretto del prete abusatore Fernando Karadima. E’ stato anche l’anno in cui l’ex nunzio negli Stati Uniti Carlo Maria Viganò ha chiesto pubblicamente le dimissioni del pontefice.

La vicenda della perquisizione di computer e della ricerca di documenti in alcuni uffici della Segreteria di Stato vaticana e i nomi importanti coinvolti in possibili manovre finanziarie di dubbia legittimità avvelena ora il 2019, già appesantito dall’imminente appuntamento del sinodo sull’Amazzonia in cui si dovrà decidere se ammettere al sacerdozio uomini ammogliati. Va da sé che il fronte conservatore è già pronto con i fucili spianati e ha indetto rosari e manifestazioni per opporsi all’eventuale “tradimento” operato da Francesco nei confronti della Tradizione (quella con la T maiuscola, adorata dai fanatici).

Tuttavia, poiché una nomina come quella di Pignatone non si improvvisa in poche ore, la scelta fatta da Francesco indica la volontà del pontefice argentino di secolarizzare al massimo l’amministrazione della giustizia nello Stato vaticano, improntandola ad un rigore estremo nei confronti di corruzione e malversazioni. Che diventi “giudice papale” un protagonista di primo piano della lotta alla mafia e alla ‘ndrangheta, un uomo che conosce perfettamente i tentacoli dell’ambiente mafioso-politico di una Capitale così contigua allo stato d’Oltretevere, è un segnale di indubbia rilevanza.

Scegliere Serpico per metterlo a capo del tribunale dimostra che Bergoglio è consapevole della posta in gioco e sa muoversi anche controvento come ha detto una volta ai suoi confratelli gesuiti. Per quante vipere possano annidarsi nei sotterranei della casseforti vaticane, il papa argentino non demorde.

Intanto è interessante notare che si è levato un immediato stormire di corvi, che propalano ai quattro venti che le “riforme di Francesco sono abortite”, fallite, effetto di un pontefice incapace di governare.

Poiché la storiaccia è appena agli inizi e molte cose rimangono da svelare, vale la pena di fissare alcuni punti.
La denuncia è partita dai vertici dello Ior e dall’ufficio del Revisore generale (autorità anticorruzione). Dunque le riforme di questi anni, alcune delle quali iniziate dallo stesso Benedetto XVI, non sono state affatto inefficaci. Sono stati costituiti anticorpi che iniziano a funzionare. In particolare – a futura memoria – va ricordato che gli accordi firmati dal Vaticano con una serie di Stati per collaborare nel perseguire crimini finanziari hanno dimostrato di essere operanti.

Dei cinque personaggi coinvolti e indicati con nome, cognome e fotografia dalla gendarmeria vaticana, due sono di primissimo piano: mons. Mauro Carlino, responsabile dell’ufficio Informazione e Documentazione della Segreteria di Stato (e per lungo tempo segretario particolare del cardinale Becciu, già nr. 2 della Segreteria di Stato) e Tommaso Di Ruzza, direttore dell’Autorità informazione finanziaria del Vaticano. Si parla spericolate operazioni immobiliari per centinaia di milioni di euro e di una verifica sui flussi finanziari sul conto dell’Obolo di San Pietro.

Ciò che gli inquirenti dovranno chiarire è se qualcuno ha operato in proprio o aveva la copertura di personalità ancora più in alto. Già ora si può dire però che l’avere scoperto, come riferisce Emiliano Fittipaldi su Repubblica, che in Inghilterra esiste una società denominata “London 60 Sa Limited” costituita nel marzo 2019, il cui amministratore è mons. Carlino e la cui direttrice è Caterina Sansone, facente parte dell’amministrazione della Segreteria di Stato ed egualmente nel mirino delle indagini vaticane, esula totalmente dalle funzioni sia di Carlino che di Sansone.

Se qualcuno li ha autorizzati a fare operazioni milionarie sul mercato immobiliare britannico, teste più importanti dovranno cadere. A una prima impressione appare che ancora oggi esistano, nella “Città” nascosta dalle mura leonine, feudi finanziari indipendenti che non hanno imparato nulla dai disastri del passato. Il che ripropone la questione se il famoso Segretariato per l’Economia, un tempo diretto dal cardinale Pell, non debba avere sul serio un controllo preciso sui bilanci e le finanze di tutte le amministrazioni della Santa Sede.

Ultima osservazione. Il Vaticano deve decidere se, quando scoppiano scandali, sceglie di affidarsi a comunicazioni sibilline o se intende seguire il metodo della trasparenza. Comunicare che sono state effettuate perquisizioni nella Segreteria di Stato – cioè nel cuore del governo papale – in relazione a “operazioni finanziarie compiute nel tempo” significa fermarsi a metà. Ed è totalmente inutile. Tanto poi nomi e cognomi saltano fuori sui media.