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Crisi di governo, cosa può succedere: sfiducia di Ferragosto e tagliapoltrone d’autunno. Tutte le tappe che (non) portano al voto

In questa fase le carte sono in mano alla conferenza dei capigruppo, convocata al Senato oggi e alla Camera domani. Sono i presidenti dei gruppi parlamentari che dovranno decidere quando convocare a Roma deputati e senatori. E per votare cosa. La sfiducia a Conte della Lega, quella a Salvini del Pd, il taglio dei parlamentari del M5s e l'esecutivo per mettere in sicurezza i conti: ecco tutte le ipotesi tra Parlamento e Qurinale

Il sogno di una notte di mezza estate, per Matteo Salvini, è un barbecue di Ferragosto per festeggiare la sfiducia a Giuseppe Conte e le elezioni già fissate dopo poche settimane. Poco più di un sogno, appunto. Perché a sole 72 ore dall’inizio della crisi di governo, un cosa appare chiara: molto difficilmente le pretese del leader della Lega si tradurranno in realtà. Anzi, è probabile anche che alle tanto agognate elezioni non si vada prima del 2020. Forse anche dopo. Il percorso innescato dalla mozione contro il premier depositata dal Carroccio ha aperto un iter che nella testa del ministro dell’Interno dovrebbe portare a votare la sfiducia “entro Ferragosto”, per poi tornare alle urne “il prima possibile”, cioè entro fine ottobre: prima materialmente non si può. E non solo perché in Parlamento si va formando uno schieramento, sempre più numeroso, di nemici del voto subito.

La conferenza dei capigruppo: come, cosa e quando decide – In questa fase le carte sono in mano alla conferenza dei capigruppo, convocata al Senato oggi alle 16 e alla Camera domani allo stesso orario. Sono i presidenti dei gruppi parlamentari che dovranno decidere quando convocare a Roma deputati e senatori. E per votare cosa. Secondo Salvini la conferenza dei capigruppo dovrà chiamare a raccolta gli eletti a Palazzo Madama il 14 agosto, cioè tra 48 ore, per votare la mozione di sfiducia a Conte. Una richiesta francamente di difficile realizzazione: sia perché alla vigilia di Ferragosto non è facile mettere in moto la macchina parlamentare. Ma soprattutto perché il 14 agosto è il primo anniversario della tragedia del ponte Morandi: possono Sergio Mattarella, Giuseppe Conte, Luigi Di Maio e lo stesso Salvini disertare la commemorazione di Genova per correre a votare la sfiducia della Lega? Per il ministro dell’Interno evidentemente sì. Per giunta Conte ieri ha diffuso la sua agenda in cui ha già spiegato che il 13 sarà a Foggia per la firma di un accordo di sviluppo nell’area della Capitanata e il 14, appunto, alle commemorazioni del disastro di Genova. E d’altra parte per fortuna questa è una decisione che spetta alla conferenza dei capigruppo: dove a pesare sono ancora i seggi ottenuti alle politiche del 2018. La Lega ha stravinto le elezioni europee e vola nei sondaggi, ma per il momento a Palazzo Madama Massimiliano Romeo rappresenta 58 senatori su 315. Anche con l’appoccio dei 18 di Fratelli d’Italia, siamo lontani dai 107 seggi che fino a questo momento porta in dote il grillino Stefano Patuanelli. Ai quali vanno sommati i 51 del Pd e i 15 del Misto, mentre i 62 senatori di Forza Italia in questo momento sembrano andare in ordine sparso.

La sfiducia di Ferragosto slitterà: le date e le tappe – È quindi praticamente certo che alla fine la conferenza dei capigruppo convochi i senatori non prima della settimana che comincia con lunedì 19 agosto, così come auspicato dal Pd e dal Movimento 5 stelle. La seduta dovrebbe iniziare con le comunicazioni del premier Conte e i 5 stelle potrebbero presentare una risoluzione a suo sostegno. La Lega, però, vuole che si voti prima la mozione di sfiducia al presidente del consiglio. Il Pd, da parte sua, vuole spingere prima la sua sfiducia, che è per Salvini. Già a questo punto la crisi potrebbe imboccare due strade diverse e non per forza opposte: da una parte, in caso di via libera alla richiesta dem con i voti dei 5 stelle, il ministro dell’Interno verrebbe molto probabilmente sfiduciato. A quel punto si dimetterebbe, ritirando probabilmente tutti i leghisti dal governo. Dall’altra è consuetudine parlamentare che le comunicazioni del presidente del consiglio vengano calendarizzate sempre prima di qualsiasi altra incombenza: persino della sfiducia allo stesso presidente del consiglio.

Forza Italia è una mina vagante (per Salvini) – Probabile che il presidente del consiglio riferisca al Senato e alla Camera nella stessa giornata. Se dovesse essere sfiduciato, però, il secondo passaggio sarebbe superfluo. Sembra improbabile, infatti, che Conte decida di andarsi a dimettere dal presidente della Repubblica, prima di farsi votare la sfiducia da Salvini in aula. È qui ecco un’altra opzione: siamo sicuri che una mozione di sfiducia a Conte abbia i numeri per passare? Al momento, infatti, Salvini è certo solo di 76 voti: 58 dei suoi più 18 di Fratelli d’Italia. I 62 senatori di Forza Italia, infatti, sono al momento delle vere e proprie mine vaganti: in caso di ritorno alle urne sarebbero decimati, visti gli impietosi sondaggi che hanno più che spappolato il 14% preso dagli azzurri il 4 marzo 2018. Perché un parlamentare – per giunta berlusconinano – con scarsissime possibilità di rielezione dovrebbe volontariamente decretare il proprio ritorno a casa? È per questo motivo che Gianni Letta – tornato negli ultimi giorni gran tessitore di trame romane – sta cercando di siglare un accordo pubblico con la Lega. Non si tratterebbe di una semplice alleanza pre elettorale, ma una vera e propria coalizione che assegni ai berlusconiani “pari dignità” rispetto ai leghisti nel futuro governo sovranista. E qui per Salvini comincerebbero i veri problemi: che senso ha far cadere questo governo per capitalizzare il 37% dei sondaggi e poi doversi spartire il potere con un partito decaduto come Forza Italia? Eppure senza i voti degli azzurri è praticamente impossibile far passare la sfiducia a Conte. Senza considerare che anche in caso di un accordo elettorale con la Lega i berlusconiani potrebbero andare in ordine sparso violando gli ordini dell’ex cavaliere. Per la stragrande maggioranza di loro si tratta dell’ultima esperienza in Parlamento e anche ai vertici di Forza Italia confessano: “I nostri parlamentari potrebbero votare qualunque cosa“.

Il lodo Grasso e la sfiducia che non passa: gli scenari – È in questo scenario che si innesta il “lodo Grasso“, nel senso di Piero. Ieri l’ex presidente del Senato ha lanciato il suo appello all’opposizione: uscire dall’aula e lasciare soli Lega e M5s al momento della sfiducia. “Chiedo ai senatori e alle senatrici di opposizione – noi che mai avremmo potuto votare la fiducia a Conte – di non partecipare al voto sulla mozione di sfiducia presentata dalla Lega. Disinneschiamo questa sciagurata pazzia voluta da Salvini con gli strumenti propri della democrazia parlamentare”, ha detto ieri Grasso. Una proposta formalizzata al telefono persino a Mariastella Gelmini, stupita quando ieri gli hanno passato al telefono l’ex seconda carica dello Stato. Cosa succederebbe se tutti i senatori d’opposizione uscissero dall’aula? Conte non verrebbe sfiduciato ma dovrebbe comunque andare a dimettersi perché non ha più la maggioranza in Parlamento. A quel punto dovrà salire al Quirinale, e il boccino del gioco finirà direttamente nelle mani di Mattarella. Il presidente dovrebbe proporre al premier di restare a gestire gli affari correnti da dimissionario. Proposta che Conte – sempre più leader politico attivo – probabilmente rifiuterà, facendo decadere anche Salvini dal Viminale, (nel caso non fosse già stato sfiduciato) posizione chiave per gestire le nuove elezioni. A quel punto occorrerà un governo di garanzia per traghettare il Paese a nuove elezioni. La Costituzione prevede che debbano essere fissate almeno dopo 45 giorni dallo scioglimento delle Camere, e mai dopo più di 70. Considerando che ci vogliono almeno 60 giorni per organizzare il voto all’estero, la prima data utile è quella del 27 ottobre. E sempre che Mattarella sciolga le Camere entro il 26 agosto: ipotesi improbabile.

Il tagliapoltrone, grimaldello anti elezioni – È a questo punto che il sogno di una notte di mezza estate di Salvini potrebbe completamente cambiare copione. Parallelamente a tutto il resto, infatti, martedì il Movimento 5 stelle chiederà alla Camera di anticipare il voto finale della legge che taglia il numero dei parlamentari, attualmente fissata per il 9 settembre. La riforma taglia 345 seggi: alla Camera si passa da 630 a 400 deputati, al Senato da 315 a 200 senatori. Per anticiparne la discussione occorre incassare il via libera dal Pd e da Forza Italia, partiti che fino ad ora hanno sempre votato contro nelle tre occasioni in cui la riforma è passata dall’aula. Stavolta però è diverso. Dei diffusissimi timori che dilaniano i berlusconiani si è detto, mentre il Pd appare al momento spaccato tra la posizione di Nicola Zingaretti e quella di Matteo Renzi. “Un accordicchio Pd-M5s regalerebbe a Salvini unospazio immenso. Nessuna paura del voto”, dice il segretario. “Votare subito è folle“, dice invece Renzi, al quale la riforma sul taglio dei parlamentare non piace, “ma devo ammettere che hanno ragione loro (i 5 stelle, ndr) quando dicono che sarebbe un assurdo fermarsi adesso, a un passo dal traguardo. Si voti in Aula in quarta lettura e si vada al referendum: siano gli italiani a decidere”. La posizione di Renzi sembra piacere al suo ex ministro Dario Franceschini, mentre Carlo Calenda la considera una “follia”. Se la direzione dem è in maggioranza zingarettiana, però, i gruppi parlamentari sono frutto delle liste fatte dall’ex segretario: dunque sono in maggioranza renziane. A Palazzo Madama l’ex premier controlla tra i 35 e i 40 senatori su 51, mentre a Montecitorio su 111 deputati, almeno una sessantina sono fedeli al politico di Rignano sull’Arno.

Parlamento light e referendum, benvenuto 2020 – Numeri che – insieme ai peones di Forza Italia, quelli di LeU e quelli iscritti al Misto e altri gruppi minori – potrebbero essere fondamentali per far approvare il tagliapoltrone e provocare l’ennesima colpo di scena di una crisi infinita. In caso di via libera la riforma sarebbe promulgata dopo tre mesi, durante i quali sarebbe possibile chiedere un referendum: potranno farlo un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque consigli regionali. Renzi ha già anticipato l’intenzione di chiederlo quel referendum, che nel caso si dovrebbe tenere non prima del giugno 2020. Cosa succederebbe nel frattempo? Si torna a votare per eleggere per l’ultima volta 945 parlamentari, lasciando in eredità il referendum al nuovo governo? Si aspetta l’estate del 2020 e si va a votare il nuovo Parlamento light, dopo aver ridisegnato i collegi e probabilmente varato una nuova legge elettorale? La risposta non esiste, perché non esiste alcun precedente simile. Quello che appare certo è l’inopportunità di tornare al voto per eleggere un Parlamento versione big, visto che qualcuno potrebbe considerarlo illegittimo dopo pochi mesi, in caso di conferma del tagliapoltrone al referendum costituzionale.

L’esecutivo a lunga conservazione – In questa strada piena d’incognite, dunque, appare chiaro che in caso di approvazione della riforma sul numero dei parlamentari la data del voto slitterebbe all’anno prossimo. Senza considerare i fattori economici. Tra grillini e renziani, infatti, comincia a farsi largo una nuova emergenza: quella di mettere in sicurezza i conti. Ipotesi da evitare per Zingaretti visto che farebbe il gioco di Salvini e dei suoi che “ora scappano per paura della manovra finanziaria perché non sanno cosa fare”. Mettere in sicurezza i conti, però, è un tema particolarmente caro a Mattarella, che sommato all’ombra lunga dell’ipotetico aumento dell’Iva e a eventuali tempeste sui mercati sarebbe lo spin off perfetto di un governo di transizione. Nessun accordicchio, come lo chiamano tutti, nessun inciucio, come lo chiama Salvini, ma un “esecutivo intermedio“, sostenuto dai renziani, dai grillini e da un grosso pezzo di Forza Italia che tagli i parlamentari e vari la monovra autunnale.Un esperimento al quale persino Beppe Grillo non si opporrebbe, almeno a giudicare dal post sul ritorno in campo pubblicato ieri. In questo modo non si andrebbe a nuove elezioni prima dell’autunno 2020. Ma un governo capace di rimanrere in carica per un anno intero, perché dovrebbe cadere a comando a settembre 2020? Perché non dovrebbe essere in grado di arrivare fino a fine legislatura, con lo stesso sostegno di chi oggi non ha alcuna intenzione di regalare il proprio seggio ai leghisti? Anche perché nel frattempo non è detto che una lunga, anzi lunghissima, campagna elettorale faccia il gioco della Lega all’infinito: non si può crescere per sempre. Nei sondaggi e non solo.