Cinema

Il Signor Diavolo, l’horror purissimo di Pupi Avati spiazza con tanti brividi e poesia

Ispirato ad una struttura narrativa che ricorda il Dracula di Bram Stoker, ma innervato da uno sguardo di ispezione di uno spazio rurale come ne La casa dalle finestre che ridono, il film permette ad Avati di sprigionare in totale libertà incubi personali e latenti, come il suo “amato” male assoluto che albeggia lugubre in ogni essere umano

Macabro, sacrilego, diabolico. Pupi Avati torna al pane sconsacrato per i suoi denti: l’horror. E si sa quante bastonate ha ricevuto da noi il grande Pupi, ma ne Il signor diavolo (nelle sale il 22 agosto!) rivela in tutta onestà quell’ambigua cupezza presente in tutti i suoi “drammi”, architrave manifesta del male profondo nell’uomo che ha allegoricamente e liberamente illustrato nel primo decennio della sua carriera. Il Signor diavolo spiazza subito nell’incipit con un dettaglio sanguinolento e mefitico da saltare sulla sedia. Si chiama jump scare, roba da americani, si diceva una volta. Una neonata viene sbranata nella sua culla da un ragazzo deforme e mostruoso con canini da maiale. Il sangue gocciola sui titoli di testa.

Siamo nell’autunno del 1952, bassa padana, in una zona imprecisata tra l’Emilia e il Veneto. È lì che il ragazzo deforme, Emilio, dopo aver battibeccato con altri adolescenti, verrà a sua volta ucciso per vendetta da un suo coetaneo, Carlo (Filippo Franchini), che in combutta con suorine e sagrestano crede Emilio l’incarnazione del diavolo. Carlo finisce in cella e all’apertura dell’istruttoria a Venezia è direttamente la grande madre DC ad intervenire. De Gasperi non vuole che nel Veneto, regione cattolicissima e dispensatrice di voti per tenere le redini di governo, la Chiesa venga ancora accostata ad antiche pratiche rituali e oscurantiste legate al demonio, e soprattutto che la madre di Emilio (Chiara Caselli), erede di una potentissima famiglia del luogo, collettrice di voti DC, finisca a fare propaganda per gli avversari politici. Un solerte funzionario (Gabriele Lo Giudice) viene spedito a Venezia per fare in modo di mostrare che la Chiesa del piccolo paese non ha plagiato l’assassino. Ça va sans dire che, come dice l’esorcista Alessandro Haber guardando dritto negli occhi il funzionario: “non parliamo solo di un omicidio tra due coetanei, ma c’è un luogo e un tempo che sono solo di quel luogo dove lei è atteso”. Per portare a termine il suo compito il funzionario si sposterà verso il paesino della bassa dove, appunto, sembra atteso da diversi protagonisti della storia.

Ispirato ad una struttura narrativa che ricorda il Dracula di Bram Stoker, ma innervato da uno sguardo di ispezione di uno spazio rurale come ne La casa dalle finestre che ridono, Il signor Diavolo permette ad Avati di sprigionare in totale libertà incubi personali e latenti, come il suo “amato” male assoluto che albeggia lugubre in ogni essere umano. E se il suo “gotico padano” anni settanta fiammeggiava leggermente di più (c’era la pellicola e qui in digitale bisogna lavorare sui chiaroscuri) Avati rimaneggia un discorso formale più espressionista, con angolazioni tortuose e punti macchina abbassati con inquadratura verso l’alto, per deformare set e attori. Nessuno ride mai ne Il signor diavolo, non c’è contraltare positivo a questo viaggio tetro in territori diabolici e contadini. Titillato l’interessante sfoggio antropologico sul cristianesimo arcaico che associa il diavolo al porco, Avati (script in compagnia del fratello Antonio e soprattutto del figlio Tommaso) ricompone la detection possibile inzuppandola di crocifissi, suore rigonfie, bottiglie e botti di urina, occhiaie e untume assortito addosso ai febbrili personaggi del racconto.

È un horror purissimo, serissimo e quello che più conta riuscito questo Il signor diavolo, perché dimostra una volta di più che il tocco poetico autoriale di Avati non è nel dramma classico dipinto di nero (Il papà di Giovanna, boh?), ma nell’angusta, inesplorata, inquietante profondità di quel nero. Insomma la scioltezza con cui si galoppa nel genere rivela il tratto felice di un cineasta che, volenti o nolenti, è un pezzo grosso di cinema italiano e forse qui perfino di esportazione da circuito horror anglosassone. Ultima noticina concettuale. Avati, come già appunto con lo splendido La case dalle finestre che ridono, per far emergere la dimensione del diabolico si immerge dentro la Chiesa e il cristianesimo. Una doppiezza esemplare, simbolica, ratzingeriana, per nulla consolatoria. Guardate la sequenza sacrilega del ragazzo che pesta involontariamente l’ostia e il prete che sospende la messa. Chi rappresenta davvero la malvagità? Da far venire i brividi.