Cultura

Andrea Camilleri, come un romanzo semisconosciuto in siciliano arcaico può essere un piacere

Il Re di Girgenti è l’opera cui mi sento più legato”. Lo ha detto in molte occasioni Andrea Camilleri: non i racconti di Montalbano, che gli hanno dato fama planetaria, ma un romanzo poco conosciuto, pubblicato nel 2001, scritto in una lingua complessa e di difficile lettura, su cui l’autore riponeva aspettative in parte deluse. IngiustamenteIl re di Girgenti, l’anti Promessi Sposi.

Si può dire innanzitutto che il romanzo è uno spasso: dà o restituisce quel piacere smisurato del racconto che si accendeva quando da piccoli aspettavamo ‘u cuntu dei nostri nonni o le favole dei nostri genitori. Le 448 pagine de Il re di Girgenti si leggono con vorace attesa degli sviluppi della trama o dell’apparizione di un personaggio nuovo o del ritorno di uno già conosciuto. E non metterebbe conto sottolineare tale pregio, riconosciuto da sempre e da tutti, se non ci si ritrovasse a confermarlo, con un esito straordinariamente avvincente, in un romanzo popolato da centinaia di personaggi, usi a comunicar in siciliano arcaico o, in alcuni casi, in spagnolo, e con una storia lunga mezzo secolo, ambientata tra la seconda metà del Seicento e i primi decenni del Settecento.

Il re di Girgenti è poi anche, e soprattutto, un’epopea degli umili, l’unica vera della nostra letteratura. Vi campeggia un folla di “gente meccanica”, per dirla con Manzoni, le cui disavventure restano il centro della narrazione, non riducendosi mai a pura occasione per le buone e sante azioni dei gruppi dirigenti o della Provvidenza, e i cui comportamenti seguono statuti etici autonomi e capaci di autorganizzazione.

Il riferimento ai Promessi Sposi non è casuale: sarà il Seicento, sarà la presenza degli Spagnoli, sarà la protervia di qualche nobilotto e una coppia di sposi angariata dai prepotenti del tempo, sarà per alcune figure di ecclesiastici che scorrono nelle pagine del romanzo di Camilleri, sarà infine per la peste che anche qui miete migliaia di vittime, ma è forte il sospetto che, in qualche modo, Il re di Girgenti debba anche considerarsi una esplicita resa dei conti con I Promessi Sposi, un suo ribaltamento radicale per cui mentre là Renzo e Lucia delegano ad altri la soluzione dei loro problemi, appellandosi alla carità e alla pietà, qui Gisuè e Filonia intessono alleanze e preparano piani, e se nelle pagine manzoniane scompare ogni riferimento alla fisicità dei personaggi, ai loro desideri più immediati (per cui non si capirà mai perché Don Rodrigo o forse anche l’Innominato restino così folgorati da Lucia se non ricorrendo al diavolo e all’acqua santa), gli uomini e le donne di Camilleri godono di una portentosa e felice sensualità; e laddove nel romanzo manzoniano le rivolte popolari rivelano la subalternità delle masse e la loro incapacità di fare storia, qui gli ‘umili’ con saggezza , intuizione del tempo e agnizione dei contesti, diventano Stato anzi regno, incoronando Zosimo primo, primo e unico caso di re contadino.

Certo, tutto non nasce dalla pura spontaneità delle masse: Zosimo è in realtà diventato un contadino intellettuale per via di una forte mediazione formativa del prete mistico Uhù che se lo porta, piccolissimo, nella sua caverna e lo inizia alla lettura e agli studi che Zosimo assorbirà con straordinaria voracità e acutezza, ma innestando le nuove acquisizioni culturali nel tronco di una salda saggezza e concretezza contadina.

Un romanzo grandioso, un debito finalmente saldato verso la civiltà contadina siciliana ormai estinta e spesso consegnataci nelle forme di un folklore istupidito e innocuo, oscillante tra ossequio canino e ribellismo selvatico, e qui invece disegnato nelle sue trame di solidarietà, nella sua voglia di ascolto, nei suoi slanci generosi e tolleranti, nella sua sensualità panica.

Come sono belle le riunioni pomeridiane della domenica, nella campagna tra Montelusa e Vigata con il mare sullo sfondo, all’ombra dell’ulivo saraceno, degli amici di Zosimo tra una mangiata di ‘aulivi’ e una ‘vivuta’ di vino e tutti a immaginare un altro mondo più giusto e una natura più generosa! Quanta scia di sensualità lasciano i passaggi delle donne tra gli uomini e come sono densi i legami tra le persone! Dall’altra parte il mondo ecclesiastico e aristocratico, dilaniato e istupidito da vani e ottenebranti propositi di ricchezza e di potere: il ‘pispico’, il vescovo, di Montelusa, Ballassaro Raina, avido accumulatore tanto di denaro e di grano nei suoi silos, quanto di luridume sul suo corpo macilento e puzzolente; e il duca spagnolo Sebastiano Vanasco Pes y Pes perfido arrampicatore, sterile nei sentimenti e nell’amore, costretto ad affidare al contadino Gisuè la possibilità di soddisfare la moglie e di darsi un erede.

In questo romanzo sembra cambiato il punto di vista con cui Camilleri guarda alle cose siciliane: direi che mentre nelle precedenti opere prevale l’occhio di chi già ha capito l’assurdità di tante manifestazioni della vita siciliana, la cui trama sociale non lascia scampo agli individui e alla ragione, e si limita a proporre una distanza con l’arma dell’ironia e della farsa, qui, forse con un salto indietro, con un ancora innocente sguardo sulle cose e sugli uomini, si dà come possibile il cambiamento dal basso perché una parte consistente della società siciliana, quella contadina e misticheggiante, ha risorse etiche incorrotte su cui può contare un illuminato progetto di giustizia.

La rivolta di Zosimo non è una delle tante jacquerie che la storia contadina ci ha consegnato: Zosimo e il suo gruppo di comando hanno pianificato ogni cosa, con periodiche chiarificazioni idelogico-programmatiche all’ombra dell’ulivo, con alleanze di classe, con riferimenti al contesto internazionale: addirittura la causa prima della sconfitta sta proprio in un eccessivo e mal riposto affidamento alle vicende internazionali, si avvia la rivolta proprio nel momento preciso in cui i piemontesi stanno andando via dalla Sicilia e gli spagnoli ne stanno ritornando per realizzare il sogno di giustizia, ma le informazioni risulteranno sbagliate, gli Spagnoli non sono alle viste e il campo resta libero per la repressione dei Piemontesi.

Zosimo è esistito veramente: è un fatto che nel 1718 capeggiò una rivolta a Girgenti proclamandosi re, è un fatto che la rivolta fu domata e lo stesso Zosimo imprigionato e giustiziato dal capitano Pietro Montaperto (a proposito perché Zosimo e Pietro Montaperto si legano da stima e rispetto reciproco? Quanti richiami e rimandi tra Montaperto e Montalbano, nomen, omen!): questo è tutto quello che è certo storicamente. Tutto il resto è Camilleri.

E qui cominciano i problemi: lo scrittore di Porto Empedocle ha spesso detto che gli capita nei suoi romanzi una curiosa inversione temporale per cui quando scrive dei giorni nostri in realtà pensa agli anni cinquanta, mentre quando scrive dell’Ottocento gli compare il presente. E il Settecento? Potrebbe essere il futuro, ma il futuro che poteva essere e non è stato: sarà per un’intrusione surrettizia di vissuto nella mia lettura, ma quelle riunioni davanti al baglio della casa di Zosimo ricordano troppo le atmosfere delle riunioni delle sezioni comuniste di una volta, e l’atteggiamento pedagogico di Zosimo, contadino che conosce la cultura più avanzata del suo tempo, verso i suoi compagni di classe ricorda molto da vicino la grande opera educativa del fu Partito comunista italiano (l’Intellettuale Collettivo) che doveva comunicare le verità ma senza violentare i tempi e le forme di conoscenza delle masse: tra tutti, è illuminante, da questo punto di vista, il bellissimo episodio dell’apparizione del ‘Santo campagnolo’ in contrada Omomortu, un’impostura organizzata da Zosimo al fin di bene: sapeva che per convincere la sua gente sarebbe stato più efficace la bocca del Santo piuttosto che la sua, per quanto stimata e ammirata.

Insomma la vicenda di Zosimo sarebbe una grande bellissima metafora del comunismo mancato, del sogno di una possibile riorganizzazione della vita e della società. Zosimo ci ha provato.