Mondo

Turchia, a Istanbul si è infranto il sogno di Erdogan

di Riccardo Cristiano*

Risultato elettorale di valenza globale: Erdogan, figlio della grande Istanbul, la città definita a lungo la seconda Roma, vi ha perso le elezioni municipali. Difficile dubitare che la quasi totalità di coloro che gli hanno detto di no siano musulmani come lui, visto che i musulmani a Istanbul come in Turchia sono circa il 99% della popolazione. Dunque per capire appieno la portata di questo verdetto – e quindi chi abbia perso insieme a Erdogan – bisogna immaginare cosa sarebbe successo se il presidente fosse uscito vincente dalle urne.

La sua promessa dell’ultimo momento: rifare di Santa Sofia una moschea e non più un museo. Sarebbe stata presentata come la carta vincente, l’asso giocato per tenere con sé un mondo irrispettoso, integralista e cristianofobo come sono i musulmani, tutti. Ovviamente questa tesi, così cara ai fautori di una versione un po’ rozza dello scontro di civiltà, ha difficoltà ad essere espressa. E quindi insieme a Erdogan possiamo indicare tra gli sconfitti i grandi semplificatori dei problemi del mondo, che vedono i musulmani tutti uguali, tutti integralisti e irrispettosi dell’altro, tanto da farsi convincere a votare per la promessa di rifare di Santa Sofia una moschea.

Ma non è andata così, nonostante tutto quello che possiamo immaginare sia accaduto per indirizzare e poi sovvertire l’esito elettorale. Questa tesi, almeno in queste ore, va riposta nel cassetto delle cianfrusaglie. Emerge una tesi più interessante. Più che a Santa Sofia gli abitanti di Istanbul pensano alla crisi economica, all’inflazione al 20%, al precipizio della lira turca svalutata del 35%, ai conti dello Stato, con le riserve valutarie che si sono assottigliate di 90 miliardi di dollari statunitensi, e pensano anche ai loro diritti, ai giornalisti arrestati, all’epurazione negli uffici pubblici e in tante università. E altro ancora. A qualcuno potrà sembrare strano, ma è assai probabile che milioni di musulmani abbiano seguito queste priorità. Così diviene interessante ricordare il passato, non proprio remoto.

Erano gli anni di un altro Erdogan, quello che andava sotto braccio con quello che lui oggi dipinge come il mostro, Fetullah Gulen: interpreti insieme dell’emergente borghesia anatolica islamica, affermatasi grazie al crollo del muro di Berlino che gli aveva aperto le porte di mercati ad altri inaccessibili, quelli dei Paesi centroasiatici dell’impero sovietico. Erdogan ne capiva il desiderio d’Europa, cioè di nuovi mercati, ma anche di nuove università dove formare i figli di quei mercanti anatolici ora arricchitisi e ansiosi di dare ai loro figli un futuro diverso dal loro. La richiesta di ingresso in Europa rispondeva soprattutto a queste esigenze e il suo prodotto politico-elettorale sarebbe stato ed è stato evidente. Così gli integralisti islamici che avversavano il progetto europeo di Erdogan lo sfidarono con una battaglia: rifare di Santa Sofia una moschea.

Non ebbero un grande successo, lo ebbe Erdogan. Ma il suo disegno fallì per tanti motivi, soprattutto per il calcolo di alcuni ambienti tedeschi: se le cose andassero così perderemmo la manodopera a basso costo turca? Una tesi basata su interessi concreti, ma che si presentava meglio dicendo che era troppo rischioso far entrare un Paese islamico in Europa. Così, visto che una porta si chiudeva, Erdogan si è girato verso l’altra: ha guardato all’assolutismo d’Oriente, con il suo palazzo presidenziale che ricorda fiabeschi castelli. Respinto dal sogno europeo ha sposato quello dei Fratelli Musulmani, dell’Islam politico. Ora con la sua promessa sul futuro di Santa Sofia ha avuto lo stesso risultato dei suoi oppositori di un tempo. Il dato è ancor più importante se si tiene conto di cosa significhi Istanbul per Erdogan: la sua città, la città dove questo umile figlio del popolo ha radicato la sua storia e il suo trionfalismo, con ponti, trafori e altro ancora. Non a caso lì aveva messo in campo la candidatura del suo ex primo ministro.

Un dato che si coniuga al medesimo esito prodotto dal voto, dopo 25 anni di dominio erdoganiano, in tutte le città della costa: non soltanto a Smirne, ma anche a Tekirdag, a Hatami, ad Antalya, a Mersin, oltre che nella capitale, Ankara. Bisogna però tener conto della realtà: il partito di Erdogan è ancora fortissimo nella Turchia profonda e il suo alleato, il partito ultranazionalista Mhp, gli consente di parlare di un’esile maggioranza assoluta. La sconfitta c’è, ma per divenire politica quasi tutti convergono nel dire che occorre un rinnovamento del pensiero e del personale politico dell’opposizione attuale. Il sogno è che si parta dalla bugia-madre: la Turchia non è mai stata e mai sarà la terra soltanto dei turchi.

*Vaticanista di Reset