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Termini Imerese, sette anni di cassa integrazione e imprenditori inaffidabili. Sull’altare del successo politico

Roberto Ginatta, con la sua Blutec, è riuscito in un'impresa formidabile: mettere le mani sul polo industriale. Ma la fabbrica non è mai ripartita. Tutti i governi, da Berlusconi a Monti, passando per Letta, Renzi e Gentiloni si sono sempre preoccupati di tamponare la crisi sociale mettendo soldi pubblici. L'esecutivo gialloverde non ha fatto eccezione

Roberto Ginatta, con la sua Blutec, è riuscito in un’impresa formidabile. Mettere le mani sui fondi per il rilancio di Termini Imerese (1 miliardo di euro lo stanziamento complessivo pubblico-privato dell’accordo di programma del 2011) non era infatti riuscito a nessuno prima di lui. Gli altri pretendenti, da Simone Cimino a Massimo Di Risio, passando per Gianmario Rossignolo e i fratelli Ciccolella, si sono fermati prima di varcare il cancello dell’ex impianto siciliano della Fiat, complici guai vari e inchieste giudiziarie che sono piovute su buona parte dei pretendenti prima che passassero dalle parole ai fatti.

GALEOTTA FU LA FRETTA DI RISOLVERE LE 3 T – L’imprenditore torinese che fu molto vicino a Umberto Agnelli ha avuto dalla sua una serie di circostanze per così dire fortunate. La prima è senz’altro la volontà politica del governo Renzi di chiudere l’annoso caso, insieme alle altre due T (Terni e Taranto) e di avere titolo per prorogare ancora una cassa integrazione talmente straordinaria che dura ininterrotta dal 2012 a oggi. Per un costo che due anni fa il Sole 24 Ore stimava in circa 400 milioni di euro. Senza contare il costo di tavoli, consulenze, istruttorie e personale dedicato al caso in tutti questi anni.

Il peccato originale si è portato dietro il resto, tanto che quando, a fine 2017, ilfattoquotidiano.it ha chiesto a Invitalia conto dei vistosi ritardi sul piano di rilancio dell’impianto targato Blutec, l’agenzia ha buttato acqua sul fuoco e il caso è deflagrato soltanto quattro mesi dopo. E ancora, come emerge dalle carte dell’ordinanza del Gip Stefania Gallì, Invitalia e il Mise targato Carlo Calenda, hanno perso tempo sul recupero del denaro pubblico affidato alla società di Ginatta, rimpallandosi le responsabilità.

LA STALLA NON SI È CHIUSA NEANCHE A BUOI SCAPPATI – “Blutec, a seguito della revoca delle agevolazioni, deliberata in data 10.04.2018, non aveva ancora restituito le somme percepite a titolo di quota conto anticipo del finanziamento”, hanno spiegato agli inquirenti i funzionari Invitalia Dante Amati e Massimo Bonanni. “Invitalia non aveva avviato le procedure di recupero giudiziario di quanto erogato in favore di Blutec nelle more della richiesta di autorizzazione al Mise ad un accordo di restituzione progressiva”, si legge nelle carte che spiegano come Blutec volesse presentare un nuovo piano, ma, non avendo restituito i soldi, avesse perso i requisiti necessari.

Solo successivamente la dirigente del Mise Clelia Stigliano ha spiegato che “l’orientamento era quello di comunicare la mancata competenza in capo al Mise per il rilascio dell’autorizzazione richiesta, trattandosi di materia ricadente nella competenza gestionale affidata ad Invitalia”, per il denaro pubblico che intanto Ginatta utilizzava per giocare in Borsa. E che non “si sognava di usare a Termini Imerese”, come riferisce ancora agli inquirenti il consulente tecnico Giorgio Bocca.

TUTTI I MINISTRI AFFASCINATI E BRUCIATI DAL CASO – Quella del Mise targato Calenda, in realtà è stata solo l’ultima, anzi, la penultima disastrosa gestione del caso che dall’uscita di scena di Scajola, dal 2011 al 2015 è stato nelle mani dell’ex sottosegretario al Mise di Corrado Passera, poi promosso a vice ministro dello Sviluppo, Claudio De Vincenti, che è ritenuto il vero deus ex machina dell’avvento di Ginatta sulla scena. E mentre il ministero passava di mano in mano da Scajola a Passera, fino a Calenda passando per Flavio Zanonato, Federica Guidi e perfino Matteo Renzi, ogni nuovo venuto si cimentava nell’impresa attratto dalla gloria che ne sarebbe venuta, salvo poi rimanerne scottato. E il conto dell’impianto siciliano si è fatto via via più salato. Non solo per i lavoratori coinvolti. Sono infatti passati 10 anni da quando Sergio Marchionne ha decretato l’addio dell’impianto da parte della Fiat.

L’ultimo modello assemblato a Termini Imerese, quello che avrebbe dovuto salvare la fabbrica, è stata la Lancia Ypsilon. I cancelli si sono poi chiusi a dicembre del 2011, anno in cui Torino, che tra il resto ha messo sul tavolo una ventina di milioni per accompagnare alla pensione circa 600 operai, è uscita dalla fabbrica che negli anni ’80 dava lavoro a 3.200 persone. Da allora la produzione non è mai realmente ripartita e il pubblico, tra Roma e Palermo, soltanto per il capitolo ammortizzatori sociali, ci ha rimesso centinaia di milioni in cassa integrazione, oltre ai 16 milioni (dei 21 milioni complessivi) versati alla Blutec e, appunto, tutta l’incalcolabile spesa per cercare un’alternativa. “Sono stati spesi soldi pubblici per risolvere una questione che in realtà non è mai stata risolta – ha sintetizzato il sindacalista Cub, Dionisio Masella – Dal disimpegno della Fiat c’è stata l’incessante necessità politica di raggiungere una soluzione che non è mai arrivata. La Fiat ha sempre preso soldi pubblici e poi è scappata. Lo ha fatto a Termini Imerese e anche ad Arese. I suoi eredi non sono stati da meno. Mi chiedo: ma dov’è lo Stato?”.

LA RIPRESA CHE NON C’È MAI STATA – A conti fatti la riconversione di Termini Imerese non c’è mai stata, ma tutti i governi da Berlusconi a Monti, passando per Letta, Renzi e Gentiloni, si sono sempre preoccupati di tamponare la crisi sociale. L’esecutivo giallo verde non ha fatto eccezione rinnovando per sei mesi (fino a giugno 2019) della cassa integrazione per i lavoratori dell’ex impianto Fiat con un emendamento nel decretone su quota 100 e reddito di cittadinanza. Denaro pubblico necessario a traghettare i lavoratori verso il reimpiego nella loro ex fabbrica. “Ma la verità è che oggi nell’impianto di Termini Imerese lavorano centotrenta persone che non hanno mai prodotto nulla”, ha precisato il segretario generale della Fiom-Cgil Sicilia, Roberto Mastrosimone. Eppure, solo una manciata di giorni fa, Blutec che ancora aveva titolo di parlare  nonostante le inadempienza, aveva promesso al ministro dello Sviluppo economico, Luigi Di Maio, che avrebbe continuato ad assorbire gli ex dipendenti Fiat “per raggiungere la piena occupazione a fine 2019”, come riferisce il verbale del Mise datato 5 marzo scorso.

Nella realtà dall’addio della Fiat non c’è stata pace per Termini Imerese con i pretendenti che hanno bussato alla porta di Invitalia caduti uno dopo l’altro. La ragione? Forse si può trovare nelle parole, pronunciate nel novembre del 2009, dall’ex ad della Fiat, scomparso la scorsa estate: “Le condizioni di svantaggio competitivo e di difficoltà” strutturali continuano a rendere lo stabilimento “in perdita”. Non a caso, l’allora ministro Claudio Scajola prospettò un investimento pubblico da circa 500 milioni per realizzare nuove infrastrutture. Un’offerta che arrivava dopo quella di un paio di anni prima quando il governo aveva messo sul piatto un piano di rilancio con 1 miliardo e mezzo di investimenti che avrebbero dovuto generare sul territorio fino a 3mila assunzioni. La proposta di Scajola non sortì però l’effetto desiderato.

I CAVALIERI BIANCHI CADUTI SULLA VIA DELLA GIUSTIZIA – Fu così che, dopo 41 anni di produzione siciliana, Termini Imerese chiuse. Ai 1.536 ex dipendenti Fiat e alle oltre 700 imprese fornitrici non rimase altro che riporre le loro speranze in una carrellata di pretendenti, desiderosi di accaparrarsi l’impianto siciliano. A promettere soldi per rilanciare Termini Imerese arrivarono in molti: il finanziere Simone Cimino, all’epoca socio della Regione Sicilia di Salvatore Cuffaro nel fondo Cape, pronto a realizzare auto elettriche; la De Tomaso di Gian Mario Rossignolo che puntava a metter su una produzione di mini suv. E persino il vivaista pugliese Corrado Ciccolella che voleva realizzare serre fotovoltaiche. Tutti, per diverse ragioni, finiti ad affrontare guai giudiziari. Alla fine, l’impianto di Termini Imerese andò alla Dr Motors dell’imprenditore molisano Massimo Di Risio che chiese alla Fiat di pagare gli incentivi per accompagnare alla pensione 700 dipendenti.

“Con me Termini Imerese risorgerà”, esordì l’imprenditore molisano. Era il dicembre del 2011 e Di Risio era riuscito da aggiudicarsi lo stabilimento da Marchionne per un solo euro. A condizione di assumere i 1.500 operai della gestione Fiat. “Probabilmente con il loro modello produttivo la scelta di lasciare lo stabilimento era giusta – spiegò Di Risio -. Per noi è diverso: con un porto a un chilometro dallo stabilimento, e facendo arrivare il grosso dei componenti per mare, avremo un risparmio rispetto a ora che arrivano a Macchia d’Isernia sbarcando a Livorno e poi su gomma fino in Molise”. In realtà le cose sono andate diversamente e l’impresa di assumere tutti gli ex lavoratori Fiat si è rivelata impossibile. Soprattutto perché, mentre Di Risio veniva accolto al Mise come il salvatore di Termini Imerese, la Dr Motors non pagava da mesi gli stipendi ai suoi dipendenti. Poi ci furono  il fumo brasiliano targato Grifa e quindi fu il turno di Ginatta che venne letteralmente coinvolto nell’operazione dagli uomini del Mise.

“PER SALVARE TERMINI BISOGNEREBBE SPOSTARE LA SICILIA”- E così le parole di Marchionne, che allora parvero una beffa, sembrano quasi profetiche: ”L’unico modo per risolvere il nodo Termini sarebbe spostare la Sicilia e metterla vicino a Piemonte o Lombardia. Se Lombardo è capace di fare questo, che Dio lo benedica”, disse nel dicembre del 2009, due anni prima della chiusura dello stabilimento. Non senza glissare sulla possibilità di ”mettere a disposizione” l’impianto siciliano anche a gruppi stranieri. “In Italia, da sempre, diversamente rispetto a tutti gli altri Paesi europei produce solo la Fiat – ha ricordato Mastrosimone – Anche se ormai è un’azienda americana”.

Aggiornato dalle autrici il 13 marzo alle 12