Politica

Tav, il fronte del Sì è un’immensa messa in scena. Per una volta do ragione a Di Maio

Tra gli abituali frequentatori di questo blog non credo ve ne sia uno che mi accrediti personali simpatie per i Cinquestelle. Magari imputandomi motivazioni del tutto peregrine come una qualche vicinanza al Pd o remoti trascorsi confindustriali. Peggio ancora – orrore! – giovanili frequentazioni di partitelli aderenti all’Internazionale liberale (dove incontrai di certo cinici furbacchioni, mai zotici e bru-bru a livello dei personaggi che affollano l’attuale scena politica).

Eppure, nell’odierno scontro su Tav sì o no, stavolta mi trovo a convenire senza se e senza ma con il diniego espresso in materia da Luigi Di Maio e soci. Nella speranza che non ci riservino l’ennesimo voltafaccia tremebondo/opportunistico tipo Tap.

Ci tengo a precisarlo: un’adesione che non discende dagli esiti di risibili farse “analisi costi e benefici”, più consone a ragionieri del catasto che a una forza politica con pretese di governo. E neppure da “bastiancontrarismo” congenito o da incistate sindromi minoritarie. Nasce dall’irritazione civile nei confronti dei meccanismi mentali che stanno dilatando il fronte pro-Tav fino a coprire quasi per intero il concerto pubblico sulla questione: la creazione di un comune sentire che trasforma in verità irrefutabile una gigantesca mistificazione. L’adozione al riguardo di un regime della doppia verità.

Come ebbi modo di rendermi conto anni fa, discutendone con un presidente di autorità portuale che considero tra i pochi realmente competenti di logistica, “se devo esprimermi in sede ufficiale affermerò sempre che il traforo in val di Susa, come il Terzo Valico (per l’alta capacità o l’alta velocità?) tra Genova e la Padania e le altre grandi opere sono assolutamente irrinunciabili. Poi in privato ti dico che non abbiamo bisogno di interventi infrastrutturali che entreranno in funzione non prima di qualche decade dallo start, quando ci confronteremo con scenari trasportistici ad oggi imprevedibili. Per cui sarebbe di gran lunga preferibile concentrarsi su interventi a impatto immediato e che servono realmente, tipo il raddoppio del nodo ferroviario di Novara“.

Un gioco delle tre carte dietro il quale si celano interessi inconfessabili? Forse sarà così per qualche bieco prenditore di commesse pubbliche. Mentre – in generale – la questione sembra a chi scrive di tutt’altra natura: un’immensa messa in scena come alibi e come placebo; un antiemetico da incertezza esistenziale.

Provo a spiegarmi: una delle caratteristiche di questa fase storica è che le classi dirigenti nella loro configurazione più estesa non hanno la benché minima idea di cosa si possa fare per rimediare ai guasti della crisi sistemica che ci affligge. Alla fine dei tempi belli in cui le ricette keynesiane e fordiste offrivano utili canovacci per politiche minimamente sensate. Per tale ragione ci si arrabatta riciclando ricette vecchie (il mito del mercato autoregolantesi e – appunto – le grandi opere come epopea teatralizzata) o trovate nuove (tipo il workfare della formazione come garanzia di occupabilità o – appunto – il sussidio di disoccupazione presentato come reddito di cittadinanza). Tutto ciò sul fronte dell’alibi, del “partiam partiamo” immobile.

L’altro fronte – quello dei placebo – risponde al bisogno irrisolto di prefigurare un lieto fine, un “arrivano i nostri” che non arriveranno mai ma che è temporaneamente consolatorio pensare di intravvedere. Sicché alcune madamine torinesi accantonano qualche giorno canasta e burraco per indossare i panni da Giovanna d’Arco contro il disfattismo anti-tunnel in val di Susa: una sorta di revival delle processioni con cui nel Medioevo i credenti pensavano di scongiurare la peste.

Sicché un po’ di benpensanti, della cattedra o della carta stampata, si adeguano al pensiero pensabile per puro conformismo (e ansia da consenso). Rabbiosi se qualcuno smaschera la loro condiscendenza pelosa. Ci sarebbero altre vie per ricostituire sentieri di speranze plausibili? Certo che sì. Ma richiederebbero impegno, tempo e fatica. Meglio sperare nei miracoli. Nel Paese dello Stellone d’Italia come mito unificante.