Diritti

Supercoppa in Arabia Saudita, di che cosa ci meravigliamo?

Ma che Paese siamo diventati? Quello che davanti agli interessi economici mette da parte tutti i buoni propositi, gli ideali e le idee di giustizia che hanno fatto di noi una Repubblica democraticaGridiamo libertà, manifestiamo in piazza contro il razzismo, contro la violenza sulle donne, ci battiamo da sempre per la parità di genere e poi davanti al dio denaro scegliamo di scendere a compromessi senza nemmeno ascoltare la voce del popolo.

Abbiamo per anni utilizzato lo sport anche come mezzo per combattere ogni forma di discriminazione e di apartheid, ma oggi nessuno ha la facoltà di impedire che si giochi la partita di supercoppa Juventus-Milan il 16 gennaio a Jedda in Arabia Saudita. Partita che verrà trasmessa su Rai Uno alle 18.30 ora italiana. Le polemiche su questa scelta si stanno facendo sentire da settimane intensificatesi nelle ultime ore, ma l’Italia – si sa – davanti agli incassi rimane stordita, tanto da perdere la memoria e un po’ anche la dignità. Nemmeno la lodevole campagna lanciata dall’Usigrai, il sindacato Rai, nella persona di Vittorio di Trapani sarà in grado di impedire lo scempio di una partita in un Paese in cui da sempre vi sono violazioni dei diritti umani.

Forse qualcuno non ha ben presente che stiamo parlando di Arabia Saudita, lo stesso Paese che ancora deve fornirci spiegazioni sulla fine e sui resti del giornalista Jamal Khashoggi, ucciso da un gruppo di agenti sauditi nel consolato del Paese a Istanbul, in Turchia, lo scorso 2 ottobre, probabilmente su ordine del regime. L’Arabia Saudita, che nel 2016 ha decapitato il religioso sciita Sheikh Nimr Baqir al-Nimr, che si era opposto alle politiche di casa Saud, la famiglia che governa da sempre nel regno. Lo stesso Paese che ancora oggi ci tiene nascosta la verità sulla strage alla Mecca del 24 settembre 2015 durante l’annuale pellegrinaggio che ogni musulmano deve compiere almeno una volta nella vita secondo i precetti dell’Islam. Parliamo di quel Paese in cui i diritti delle donne sono inesistenti.

Probabilmente nella totale ignoranza di quello che accade nel paese del Golfo, la Lega Serie A anche con un pizzico di soddisfazione ha diffuso ieri un comunicato sulla vendita dei biglietti. Nel documento vengono elencate le procedure necessarie per l’acquisto dei tagliandi (in poche ore ne sono stati “spazzati” 50mila, sui 60mila disponibili) si legge “a gonfie vele la vendita” e le regole relative allo stadio, tra cui ne spicca una: ci saranno alcuni settori del “King Abdullah Sports City Stadium” riservati unicamente agli uominiEh già, solo agli uomini! Le donne non sono ammesse alla stadio se non nel settore misto.

Ma di cosa ci meravigliamo? Davanti a milioni di euro, ci siamo dimenticati che l’Arabia Saudita fino a pochi mesi fa era l’ultimo Paese al mondo a non riconoscere ancora il diritto di guidare alle donne, che finora dovevano fare affidamento su mariti, fratelli o autisti. Un divieto caduto grazie alle proteste di numerose attiviste che sono state punite con il carcere. Un Paese in cui gli spazi pubblici sono divisi in una sezione dedicata alla “famiglia” a cui possono accedere le donne, e una per i soli uomini. In cui le occasioni che le donne hanno di passare del tempo con uomini diversi dai membri della loro famiglia sono molto poche.

Ancora oggi le donne hanno diritto solo alla metà dell’eredità rispetto ai loro fratelli e, prima di sposarsi, devono ottenere il permesso del tutore. Le donne tuttora devono richiedere l’approvazione del ministro dell’Interno nel caso di un matrimonio con uno straniero, non hanno diritto ad aprire un conto in banca, non essendo riconosciuta loro la libertà di gestire le proprie finanze. Le donne che divorziano dal proprio marito hanno diritto alla custodia dei figli solo fino ai 7 anni nel caso dei maschi e fino ai 9 per le bambine. Per non parlare poi della scelta degli abiti, non lontani dall’abaya, il lungo camice nero che copre tutto il corpo eccetto la testa, i piedi e le mani. Oppure alla condizione delle lavoratrici domestiche, trattate da schiave, tanto spingere le nazioni di provenienza a scrivere nuove regole per le assunzioni, in cui sono state contestate oltre allo sfruttamento la riduzione in fame, le percosse, le umiliazioni, la negazione del diritto a sentire i propri familiari e a uscire di casa.

Un Paese non certo con cui fare affari e che mette la donna in una condizione di subalternità. Una ricca petro-monarchia wahhabita che ci ha letteralmente “comprato” a dispetto dei diritti e dei valori universali.