Società

Disturbo post traumatico da stress, il vero nemico dei reduci e delle loro famiglie

Andato in onda una settimana fa, il servizio della trasmissione televisiva Le Iene riguardante il disturbo post traumatico da stress che affligge molti militari a seguito di eventi bellici ai quali sono stati esposti, ha avuto il merito di alzare un velo su un tema assai noto a chi si occupa di clinica ma ancora poco conosciuto al di fuori dell’ambito medico. Si tratta di una patologia insidiosa che genera stigma sociale e un profondo senso di vergogna in coloro i quali ne sono affetti. Occupandomi da tempo di questa tematica, ho potuto notare due elementi salienti nell’ascolto delle persone sottoposte a trauma violento e ripetuto in scenario bellico e non solo: la sospensione del tempo soggettivo e la refrattarietà alla scansione della seduta.

“Il trauma è dato dal fatto che certi avvenimenti vengono a situarsi in un certo posto di quella struttura, vi assumono il valore significante che vi è connesso in un determinato soggetto”. Questa frase di Lacan, enigmatica se non calata in contesto clinico, riassume ciò che emerge chiaramente dai racconti di questi uomini. Il momento del trauma, per alcuni, diviene l’alba di una nuova vita psichica, un evento che azzera il passato costringendo l’individuo a riviverlo quotidianamente , come in un infinito giorno della marmotta.

“Io vedo quelle scene ogni giorno e le sogno ogni notte. Nessuno mi crede”

“Ogni mattina arrivano le immagini della tortura alla quale sono stato sottoposto. I dettagli, le facce dei carcerieri. Le vivo come se fossero attuali, pur essendo passati molti anni. E ciò accade ogni mattina”

“Al supermercato scorgo dietro i carrelli coloro i quali mi tesero l’imboscata tranciandomi la gamba, poi razionalizzo e so che non sono lì, ma io continuo a vederli per tutta la giornata. E questo succede ogni santo giorno”

Individui traumatizzati, a seguito di un suono di clacson troppo ravvicinato, escono dall’auto e si nascondo sotto l’automobile, altri ancora diventano violenti e maneschi in famiglia, chiedendo in seduta un aiuto a fermare il demone che li abita. Non a caso una delle donne intervistate nel servizio, dopo aver visto il cambiamento del marito sempre più aggressivo, afferma: “Quello non era più lui”. Queste sono frasi ed esempi paradigmatici, attinti dalle decine e decine di racconti che chi si occupa di clinica ascolta nei congressi scientifici e dalla bocca di chi è oppresso da questa condizione.  Incubi vividi, attacchi di panico, esplosioni immotivate d’ira, stati perduranti e invalidanti di angoscia. Questo è il dpts.

In un’inchiesta del 2011 il giornalista scientifico Ranieri Salvadorini, che indagò questo tema dopo la strage di Nassirya, riporta questa testimonianza: “Ricordo solo che mio figlio mi diede una pacca sulla spalla. ‘Ciao pà!’ disse. Non ricordo altro. Solo che i vicini cercavano di togliermelo dalle mani”. Piero Follesa è un reduce di Nassiriya che ha aggredito il figlio 14enne credendosi sotto attacco. E nella sua mente lo era. Da quel giorno, quando Follesa si sente un po’ “strano” raccomanda alla moglie e ai figli: “Chiudetemi a chiave dall’esterno e se sentite battere non preoccupatevi, sono io che sbatto la testa nel muro”. Nella medesima inchiesta troviamo che “In Europa la media di dpts tra i contingenti è del 4-5%, all’interno di una stima del 10% di manifestazioni minori del disturbo. Si arriva al 20-30% negli Stati Uniti, si scende di poco in Canada, mentre in Gran Bretagna la Difesa dichiara un 3%, subito smentita dalle cronache: circa il 10% dei detenuti nelle carceri britanniche (20 mila persone) provengono dalle forze armate, quasi tutti dentro per violenze (soprattutto domestiche) legate all’abuso di alcol e droghe”.

Come il servizio delle Iene dimostra, le istanze di molti reduci sono state vanificate in quanto l’Esercito a fatica riconosce gli effetti invalidanti del dpts, il che rende le loro vite ancor più frustrate e segnate dall’isolamento. Il riconoscimento di questo stato di vera e propria invalidità è un elemento che potrebbe aiutarli nella faticosa ricerca del ritorno ad una vita normale. Tale riconoscimento è, infatti, una precondizione necessaria per un tempestivo intervento clinico, poiché in casi di dpts è decisivo avere una diagnosi e agire molto velocemente, portando in parola il disagio del traumatizzato non appena esso si manifesta. È fondamentale avere la possibilità di ascoltarlo e supportarlo non appena le scene irrompono, così da marcare una linea netta tra il passato e il presente, tra il reale e ciò che dal passato può opacizzarlo sino a fagocitarlo.

Quando la situazione è già molto compromessa, quando cioè le ossessioni e le ripetizioni hanno già preso il sopravvento o le esplosioni di violenza hanno tracimato portando l’individuo a commettere atti contro la persona, conducendolo a un pesante ritiro sociale, un buon intervento psicoterapeutico-farmacologico ha meno possibilità di scalfire la sequenza delle scene che irrompono nella sua mente. Lasciare per molto tempo senza spazio di cura e di parola chi è costretto al fenomeno della riesperienza porta all’innesto di un automatismo delle scene traumatiche le quali diventando in tal modo persecutorie e totalizzanti. È dunque una buona cosa l’istituzione del Centro per veterani di guerra, all’inaugurazione del quale ha partecipato il ministro delle difesa Trenta. La speranza è che diventi un luogo di riabilitazione clinica e accoglienza, capace di restituire questi uomini e queste donne ad una vita sociale il più accettabile possibile.