Politica

Repubblica e il Giornale, le loro crisi parlano anche di politica

Le crisi simultanee di Repubblica e Giornale, pur inserite nella inarrestabile caduta della carta stampata come mezzo di comunicazione di massa, ci parlano anche di politica. Perché di politica, giustamente, parlano i protagonisti, i giornalisti che dovrebbero pagare il prezzo delle crisi.  “Nel momento in cui Repubblica è sotto attacco da parte della maggioranza di governo, i giornalisti esigono dall’azienda che si mettano in campo tutti gli strumenti e i comportamenti necessari per difendere il giornale, per proteggerne l’autorevolezza e la libertà, per tutelare la comunità dei lettori. Allo scopo di preservare la qualità e il ruolo di Repubblica come garante del tessuto democratico del Paese” Questo è il passaggio chiave del comunicato del cdr di largo Fochetti.

Sorprendentemente analogo quello dei colleghi del Giornale nell’appello al portafoglio di Silvio Berlusconi “rappresentiamo un mondo che a testa alta continuiamo a chiamare borghesia, che oggi più che mai vuole resistere a chi urla, a chi maledice, a chi ha fatto dell’odio una scorciatoia per il successo, a chi infama e fa stracci degli ultimi architravi della democrazia, a chi non sa nulla e fa della propria ignoranza una bandiera (…). noi siamo i veterani di mille battaglie combattute al suo fianco”. I due giornali, un tempo rivali all’ultimo sangue, oggi esangui di fronte ad una opinione pubblica da loro rappresentata che, in base al sondaggio di Ilvo Diamanti, è passata dal 70% a meno del 30% del paese.

Ora l’antica, personale, familiare, appassionata appartenenza ad uno dei due gruppi e il servizio dedicato al sindacato dei giornalisti non sono,da parte mia una garanzia di equanimità. Per cui per me la rivendicazione orgogliosa degli ex sottoposti in varie fasi di Feltri, Sallusti e Belpietro, sentenze della magistratura e provvedimenti dell’Ordine alla mano, la condivisione di metodi che sono diventati un modo di dire, il “metodo Boffo”, l’appoggio perinde ac cadaver alle campagne politiche di un pregiudicato e non solo di spregiudicati, sbatte un filino con la realtà, oltre che con le finzioni della legge Gasparri. Così come l’orgoglioso rifiuto dei colleghi di partecipare ad un solo sciopero di categoria quando a rimetterci retribuzioni e lavori erano gli stracciaculi delle altre testate.

Ma si sa, il tempo è galantuomo. Il diverso peso e la diversa misura personale non può però essere applicato alla politica, anzi. La scelta di campo di Repubblica più che ventennale nei confronti della Lega, secondo me fin dal primo Vaffa day contro il grillismo, cozza qui con il mutamento sociologico del paese. Da giornale partito che prediceva e realizzava l’incontro delle culture alte della prima Repubblica, da scudo e lancia della mezza Italia anti berlusconiana, a difensore (in buona compagnia, checché ne pensino i colleghi in sindrome da accerchiamento: La Stampa, il Corriere, il Messaggero, Mediaset, Sky, la Rai) di un fortino isolato, il perimetro stretto degli attivisti del Pd e dei teorici del più Europa. E’ una scelta politicamente non solo legittima, forse doverosa. Ma oggi l’intellettuale collettivo, la comunità dei lettori e degli scrittori, in questo come al Giornale, non è più organica al paese, è residuale.

Posizione che in una democrazia può e deve essere coltivata, deve e può essere protetta in attesa di tempi migliori. Posizione, però, che da giornale partito trasforma in giornale di partito. Se tu bandisci come eversivo, grottesco, ignorante, catastrofico, almeno il 60% dei potenziali elettori, metà dei quali fino a dieci anni fa erano tuoi lettori almeno saltuari, se con loro non hai interlocuzione positiva, di confronto, se non vedi, non vuoi vedere, quello che Veltroni chiama pudicamente “disagio” dopo la più grande crisi economica e sociale del dopoguerra, allora hai deciso di parlare di te solo con i tuoi. I conti non tornano. La Gedi con i giornali vuole fare soldi perché, per quanto politicamente impegnata sia la proprietà, non lo è al punto da essere un partito pronto a svenarsi per il proprio organo ufficiale. E l’epoca degli organi ufficiali, tra l’altro, è finita da un pezzo.