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Orbán, le sanzioni all’Ungheria servono a difendere la libertà di un paese Ue

Oggi il Parlamento europeo ha adottato con larga maggioranza la relazione della deputata Verde Judith Sargentini, che chiede al Consiglio europeo di attivare l’articolo 7 del Trattato di Lisbona nei confronti del governo autoritario di Viktor Orbán per gravi violazioni dei valori fondamentali dell’Unione, soprattutto in materia di media, università e potere giudiziario.

Questa relazione, molto circostanziata e precisa, è stata frutto di un lungo lavoro di analisi e di numerose interviste e visite in loco: dimostra senza ombra di dubbio lo smantellamento della giovane democrazia ungherese e la sua cattura da parte del clan di Orbán. Non c’è nulla di superficiale o ideologico.

E infatti è stata proprio la qualità del lavoro e la difficoltà di attaccarlo sul merito, oltre all’arroganza di Orbán, che hanno permesso di raccogliere una maggioranza così vasta. Dei 693 deputati presenti in aula, infatti, ben 448 hanno votato a favore, ben oltre il 50%: il Parlamento europeo, quindi, non è per nulla spaccato. Tra i favorevoli (seppure per motivi discutibili e strumentali) anche il M5S, partner di governo della Lega, grande alleato di Orbán che, difatti, ha votato contro, insieme a Forza Italia.

È dal 2013, con l’adozione di una relazione di un altro deputato Verde, Rui Tavares, che il Parlamento chiede alla Commissione e ai governi di fermare la deriva autoritaria di Orbán. Ma la Commissione ha scelto la strada di un approccio settoriale, attaccando su singole leggi e dettagli invece di considerarla una sfida ai valori fondanti della UE: il risultato è che si è perso tempo e si è indebolita l’opposizione interna; Orbán ha ciononostante guadagnato legittimità, come un governo che ha qualche problemino risolvibile con dialoghi benevoli.

La cosa più grave, però, è che è riuscito a far dimenticare che la piccola economia (e, di conseguenza, il governo) ungherese si regge sui fondi strutturali europei che vengono distribuiti ad amici e parenti suoi, su una corruzione diffusa e una propaganda nazionalista martellante, su bassi salari e su centinaia di giovani che continuano a emigrare. Veramente non un modello da seguire, per nessuno, e meno che mai per l’Italia.

Il risultato di oggi incoraggia chi pensa che, nonostante la grancassa mediatica, sia un errore pensare che nazionalisti e xenofobi abbiano già vinto in Italia e in Europa e che ci stiamo mestamente avviando verso società monocolori, omogenee, ben chiuse in confini sigillati e soddisfatte di esserlo.

Ma per sconfiggere davvero queste fosche tentazioni dobbiamo rendere chiaro che quella società è di gran lunga meno desiderabile di una basata sul rispetto delle diversità, rendere evidenti i vantaggi di una società aperta e multiculturale, a partire dalla messa in atto di politiche economiche basate su investimenti nei settori capaci di creare lavoro, educazione  e innovazione, non su deficit, taglio delle tasse ai ricchi e sussidi a pioggia. E dobbiamo farlo senza farci intimidire dalle supposte maggioranze oceaniche che sostengono, spesso con trucchi, proprio quei leader reazionari.

Dobbiamo sconfiggere la pericolosa idea che la difesa di Stato di diritto e libertà si fermino alle frontiere o che siano un lusso da radical chic, e sottolineare invece che esse sono la premessa per una economia prospera e capace di distribuire vantaggi a tutti, non solo agli amici dei potenti.