Musica

Arrigo Boito cento anni senza un maestro del libretto d’opera

Cent’anni fa morì Arrigo Boito. Nato a Padova nel 1842, fu letterato, critico, librettista, compositore. Cosmopolita e poliglotta, fu uno dei giovani intellettuali irrequieti, i cosiddetti “Scapigliati”, che denigravano i languori del romanticismo italiano e il provincialismo della nostra letteratura. Con l’attrice Eleonora Duse, dal 1887 al 1898, intessé un rapporto amoroso e intellettuale intensissimo. Ventiduenne, condensò in quattro punti un programma incendiario di rinnovamento del melodramma italiano.

L’opera in musica, per Boito, doveva:

1. obliterare la “formula”;

2. creare la “forma”;

3. attuare il più vasto sviluppo tonale e ritmico possibile;

4. incarnare il dramma.

L’attacco era implicitamente rivolto contro Verdi. La “formula” alla quale alludeva era rappresentata dalle convenzioni di cui il melodramma dell’Ottocento era intessuto, le stesse che ne assicuravano la vitalità e l’elevata produttività. Con questo atteggiamento eversivo, da avanguardista, Boito produsse il suo “Mefistofele”. Il modello altissimo era il “Faust” di Goethe, l’immensa “tragedia” in due parti su cui il poeta tedesco lavorò per una vita.

Boito attinge da entrambe le parti: la prima, con la vicenda della diabolica seduzione di Margherita, che Mefistofele conduce nelle braccia di Faust; la seconda, che trasferisce l’azione sul piano della mitologia classica: morta Margherita, Faust amoreggia con Elena di Troia. Boito sapeva il tedesco, ma per il libretto si affidò a traduzioni francesi. Dato alla Scala nel 1868, “Mefistofele” fu un solenne fiasco.

Sembrò condannato all’oblio. Intervenne l’editore, Giulio Ricordi, giovane anch’egli, intelligentissimo, capace di fiutare gli umori del pubblico. L’opera, mitigata e azzimata, fu riproposta al Teatro Comunale di Bologna nel 1875. Era la piazza giusta: aveva ospitato la prima italiana di un’opera di Wagner, il “Lohengrin” (un idolo per Boito) e tutti i grands opéras di Giacomo Meyerbeer. Era dunque votata al “nuovo”: si poteva sperare in un’accoglienza favorevole. E infatti, “Mefistofele” fu accettato, e da allora, sia pure con parsimonia, ritorna nei teatri di tutto il mondo. Ebbe successo anche la seconda opera, “Nerone”, alla quale Boito attese per tutta la vita: postuma, andò in scena alla Scala nel 1924, direttore Arturo Toscanini.

Giulio Ricordi, qualche anno dopo il “Mefistofele”, compì un vero miracolo. Nel 1871 al Cairo e nel 1872 alla Scala andò in scena “Aida”. Nonostante il folgorante successo, parve che Verdi avesse concluso la sua parabola. Di lì a qualche anno Giulio, profondo conoscitore del teatro e degli uomini, tenta un colpo gobbo: mette Boito alle calcagna del grande compositore, in qualità di librettista fuoriclasse (nel 1874 aveva firmato la fortunata “Gioconda” di Ponchielli). Operazione impervia, stante la differenza d’età, la dissimile concezione dell’arte, gli attacchi del giovane Arrigo al venerato Maestro. Eppure andò in porto.

Boito comprende che il rapporto con Verdi gli può dar luce; Verdi, esperto del mondo, dimentica le intemperanze del passato di Arrigo e si lancia in una nuova impresa. Per primo venne, nel 1881, il rifacimento del “Simon Boccanegra” (1857): Boito lo migliorò e vi aggiunse la fastosa Scena del Consiglio. Ne risulta esaltato il personaggio di Paolo, un “cattivo” che più cattivo non si può: per molti versi è un antenato di Jago. In lui s’incarna la visione dualistica di Boito: il bene e il male sono in lotta, e il bene, quand’anche trionfi, è sempre guastato dal male.

Dopo questo primo approccio vennero i capolavori assoluti desunti da Shakespeare: “Otello” nel 1887, “Falstaff” nel 1893. Quando “Otello” va in scena, Verdi ha 73 anni, Ricordi 47, Boito 45. Se si legge il carteggio fra i tre, risalta che la differenza anagrafica, anziché ostacolarla, stimola la creatività verdiana: il compositore porta con sé un’esperienza e un talento formidabili, Boito sbandiera una visione nuova dell’arte e del teatro, Ricordi offre l’entusiasmo dell’imprenditore, temprato dalla pazienza e dalla diplomazia.

Il tono dei due giovani è sempre deferente; quello del Maestro, aperto e cordiale. Qualche anno dopo il successo universale dell’“Otello”, sconsolato per la morte di Tito Ricordi, padre di Giulio, Verdi scrive: “E così tutti gli amici e conoscenti della mia gioventù passata a Milano, tutti o quasi sono spariti!! Quale desolante vuoto!!”. Con poche parole delinea il dramma della vecchiaia longeva, il dramma di chi vede diradarsi la cerchia degli amici e delle persone stimate. In verità gli rimangono due giovani amici, Arrigo e Giulio, che stimoleranno ancora la sua prodigiosa creatività, spronandolo a comporre, verso gli ottanta, quell’insuperato gioiello del teatro musicale comico che è “Falstaff”.

Su Boito il lettore trova importanti contributi di Emanuele d’Angelo, egregio conoscitore del musicista-letterato: in particolare la monografia Arrigo Boito drammaturgo per musica (Marsilio 2010) e l’edizione de Il primo Mefistofele (Marsilio 2013).