Cucina

Milano, piccoli pasticceri crescono (di brutto)

La qualità italiana nel campo culinario è nota. Negli ultimi anni i programmi televisivi (spesso format stranieri importati) dove chef e/o pasticceri di prima linea si sfidano tra like, click e lezioni di cucina a giovani (e non) aspiranti chef sono spuntati come funghi. La lista è nota: Bake Off, Masterchef etc. Concedetemelo, mi piacciono i dolci. Ognuno ha i suoi vizi.

Tempo fa Ernst Knam, famoso cioccolatiere tedesco, mi spiegò che un conto era fare il “pasticcere” di fronte alle telecamere, cucinando una torta perfetta. Un conto era farlo tutti i giorni, cucinando 50 di torte (più croissaint, mignon, monoporzioni, cioccolatini etc.). L’arte della cucina non è una questione solo di abilità ma di serialità, di strutturazione di una linea di produzione, di perseveranza.

Se parliamo poi della pasticceria – l’ultima arte del pasto – le cose si complicano ulteriormente. A mio avviso il dolce è quella parte del pranzo (con gli stili di vista ormai relegato alla cena) dove un ristorante si gioca tutto. Lo stesso tema se parliamo di un dolce preso a sé stante, come uno spuntino, una gratificazione. Ogni tanto le giornate ti pesano, il cielo ti cade in testa e una fetta di torta, un mignon o (come vanno di moda oggi) una mono porzione, ci sta.

Negli ultimi anni Milano ha visto una crescita costante di pasticcerie di alta qualità. C’è stata anche molta diversificazione: dalle pasticcerie di moda (nel vero senso della parola) come Gucci, a quelle alternative come Pavè, senza dimenticare quelle storiche come il Sant Ambroeus. Realtà che per competere hanno due scelte (l’una non esclude l’altra intendiamoci): o avere un ciclo di vita molto veloce – tradotto vendere molto e quindi avere una ottima pianificazione per acquisto materie prime, facendo micro economie di scala – oppure usare la propria pasticceria come flagship (chiamiamolo promozione del marchio) e produrre per terzi (con o senza una griffe di riconoscimento).

Il secondo approccio è il più interessante, implica una pianificazione ancora più strutturata. Pensiamo che Iginio Massari, un gigante di quest’arte, ha aperto la sua seconda pasticceria a Milano a decenni di distanza dalla sua storica di Brescia. Una scelta oculata, certo, che fa capire come il costo di aprire e mantenere una posizione fisica – specie a Milano, specie in centro – sia una scommessa.

Dato che Iginio lo avevo già intervistato, ho pensato di andare a scovare un suo alunno che, alla tenera età di soli 24 anni, sta decisamente percorrendo le strade del maestro ma a una velocità impressionante. Ho scovato Nicolò Moschella su Instagram grazie a uno dei classici corto circuiti “social”: stalkeravo (per modo di dire) amici foodies e su una delle monoporzioni trovo taggato il pasticcere che ha fatto il dolce al cioccolato che la mia amica stava divorando (altro che foto con boccuccia da babbuino, sembrava più Sarlacc di Guerre stellari).

Due chiacchiere con Nicolò per parlare di soldi nel suo quartier generale. Edificio anonimo da fuori (uno dei tanti prefabbricati della provincia di Milano) nasconde al secondo piano un laboratorio di 500 mq. “Abbiamo aperto qui nel 2016 all’inizio avevo solo due collaboratori ora impiego dieci dipendenti che mi aiutano in tutte le fasi. Siamo partiti poco meno di due anni fa, a novembre del 2016″. Ora per dare l’idea al lettore il personale di Knam è di circa 20 persone. Il doppio, vero, ma Knam è “sulla piazza” da 15 anni (circa).

L’approccio di Moschella ha più similitudini con le startup moderne che operano nel mondo digitale: scomporre il problema (o l’opportunità), sviluppare una soluzione, scalarla e aumentare i fattori di produzione (o crescita). Anche nel white label, mi spiega, invece di avere “il cliente grande, che ti fa fatturato ma che se ti molla è un colpo pesante da ammortizzare, meglio puntare su di una strategia di tanti clienti medio piccoli”. Un approccio che permette di contenere i danni da crollo di domanda (a meno che tutti i bar e i ristoranti di Milano chiudano tutti nello stesso giorno).

24 anni, sei di esperienza sul campo (e una decina di studi), dieci dipendenti, 500 mq, mille e 300 monoporzioni, 100 torte, 5 mila mignon pezzi circa a settimana. Questi i numeri. Un caso storico di successo di un giovane che non ha lasciato l’Italia.

@enricoverga