Diritti

Divario di genere, perché le donne boicottano le ‘scienze dure’

Qualche tempo fa, una studentessa mi disse, con orgoglio, davanti ad altri studenti: “Studio servizi sociali. È stata una mia scelta”. Dopo diverse domande tese a indagare sul contesto sociale e familiare di provenienza, sulle condizioni economiche, sul luogo in cui vive e sui suoi studi pregressi, la sicurezza precedentemente espressa circa la “scelta” (cioè l’autonomia della scelta) iniziò lentamente a vacillare. Non poteva essere altrimenti. Nessuna azione o pensiero avviene in un vuoto. Ogni scelta è inserita in un contesto di relazioni sociali, che la precedono e la condizionano. Perciò se davvero si vuole riflettere sul perché le donne boicottino le “scienze dure” all’università, privilegiando le discipline umanistiche, bisogna prima di tutto volgere lo sguardo sul contesto, che fortemente le condiziona, ma che passa inosservato, persino ai loro occhi. In breve, come suggerisce Nancy Fraser nel suo ultimo libro, Fortunes of Feminism: From State Managed Capitalism to Neoliberal Crisis, “bisogna tornare all’economia politica” (senza però perdere di vista i processi di acculturazione delle donne nelle società odierne).

Motivo per cui, le iniziative di Miriam González Durántez, moglie dell’ex vicepremier britannico Nick Clegg, e del gruppo internazionale Inspiring Girls, da lei fondato e impegnato a promuovere nelle scuole di molti paesi incontri con donne “in carriere, ancora oggi reputate ‘da uomini’, per spingere bambine e ragazze a non precludersi nessuna possibilità per il futuro” non avrà, con buona probabilità, alcun impatto. Perché le scelte delle bambine e delle ragazze sul loro futuro non sono una questione di training autogeno, o di incapacità delle stesse di immaginarsi un futuro diverso da quello di insegnanti, infermiere o assistenti sociali. Essere relegate ai soliti “ruoli di cura” (delle anime, dei corpi o dei bisogni), esattamente come accade nella “tradizionale” divisione dei ruoli in famiglia, è questione che chiama in causa, prima di tutto, la divisione nazionale e internazionale del lavoro, le sue tendenze storiche e attuali, che hanno visto e vedono sempre le donne subalterne agli uomini nel mercato del lavoro. Subalternità espressa non soltanto nel divario salariale, ma anche nelle tipologie di lavori effettuati. Cambiare questa situazione non è una questione che chiama in causa il convincimento o l’auto-convincimento delle donne.

Il pensiero femminista del secondo dopoguerra ha ampiamente spiegato le dinamiche di questi processi ed è stato capace di far sbriciolare tutto quell’immaginario che aveva occultato l’ingiustizia di genere e aveva tecnicizzato la politica. Avendo compreso molto bene che il privato è politico, la teoria femminista degli anni 60-70 del secolo scorso è stata in grado di individuare ed esporre al mondo il profondo carattere androcentrico del capitalismo, arricchendo in tal modo l’intera teoria critica della società di mercato.

Qualche problema, anche molto serio, lo incontriamo oggi con un certo “femminismo mainstream“, come quello rappresentato, ad esempio, da Hillary Clinton, Michelle Obama…fino ad arrivare alla signora Durántez. Con il venir meno delle energie utopiche e delle battaglie radicali degli anni 60-70, tutte le questioni relative alla sfera femminile sono state assorbite dalle retoriche e dalle politiche dell’identità. Abbiamo a che fare con quello che possiamo definire femminismo liberale o embedded (al pensiero di Stato), che si è affermato a livello globale a partire dagli anni 80 e che ha finito per instaurare un legame pericoloso con il pensiero neoliberista.

Se la generazione di femministe degli anni 70 (quelle della “seconda ondata”) aveva cercato di rifare l’economia politica per superare dalla radice ogni forma di divario (anche culturale) e discriminazione nella società, quella successiva – ovvero quella parte che è diventata ora mainstream – si è maggiormente concentrata sulla trasformazione della cultura. Invece di collocare i temi del lavoro, della cura, della violenza o delle disparità di genere nel contesto sociale, economico e politico del sistema capitalistico, questi sono stati risignificati e riconfigurati come mere questioni attinenti ai valori culturali, concepiti come valori astorici, essenzializzati, e perciò avulsi dal loro contesto socio-economico. Ed è proprio su questo terreno che è stata sigillata la diabolica alleanza con il neoliberismo. È proprio nell’interesse del neoliberismo, afferma la Fraser, «deviare le lotte politico-economiche in canali culturalisti», al fine di «reprimere tutta la memoria dell’egualitarismo sociale».

Queste femministe embedded, bianche o “sbiancate” (white-washed), si rivolgono alle altre donne, comprese quelle più giovani, ripetendo il leit motiv del “merito” e dell’ “uguaglianza” (astratta), senza mai tenere conto delle condizioni socio-economiche di partenza. Hanno sostituito la “classe” e la “razza” (intesa qui come costruzione sociale), due delle categorie-chiave nell’analisi dei fatti sociali, con “cultura” e “identità”. Il tutto accade proprio mentre il welfare e i diritti sociali, quelli delle donne in primis, vengono smantellati, in Occidente come altrove, e mentre le disuguaglianze di genere, nel lavoro come in ogni altro ambito dell’esistenza, tornano a crescere pericolosamente.

Pertanto, al fine di non precludere certe professioni alle ragazze, accanto ai colloqui con scintillanti “donne in carriera”, sarebbe indispensabile rimuovere nel loro percorso tutti gli ostacoli sociali ed economici che impediscono loro di avere un futuro da ingegneri, programmatrici o altro. Il che significa, in parole povere, consentire, prima di tutto e sin da ora, alle loro madri di fare lavori dignitosi con orari dignitosi e di ricevere salari altrettanto dignitosi e uguali a quelli degli uomini. Perché se la produzione è fondata sulle gerarchie e sullo sfruttamento, l’asservimento della donna all’uomo (che poi determina e legittima il fatto che le donne siano discriminate nelle retribuzioni, nel godimento dei diritti, nell’accesso al lavoro e all’istruzione, nel carico del lavoro complessivo e in molto altro ancora) è destinato a non scomparire.

Poi, contemporaneamente, occorrerà eliminare la contrapposizione tra lavoro retribuito e lavoro di cura,  rendere gratuito l’accesso allo studio, ecc. Troppo difficile? Certo, ma fare dei colloqui con Michelle Obama o Paris Hilton o perfino con presidentesse di Senati o Camere non cambierà di certo le cose. Tornando a casa, dopo gli emozionanti colloqui, queste ragazze si troveranno costrette ad aiutare le mamme, le nonne o le zie nelle faccende di casa (la situazione non cambia quando l’emancipazione dal lavoro riproduttivo delle donne di casa si regge sulle spalle di “colf” o “badanti” straniere: il modello resta lo stesso). Il ruolo che la società intera assegna loro sin da bambine è quello della cura: sono educate, da sempre, a prendersi cura degli altri, dei maschi di famiglia in primo luogo. E poi ci si scandalizza quando, crescendo, trasformano queste “skills” in professione: infermiere, insegnanti, assistenti.

L’inchiesta completa di Chiara Brusini su Fq MillenniuM, in edicola per tutto il mese di marzo e disponibile sullo shop online