Politica

Salvini, la missione perfetta per tenere unita la destra. Ma rischia di trainare una coalizione a pezzi: a Fico mancano 60 voti

Nell'accordo per l'elezione dei presidenti di Camera e Senato, il leader del Carroccio ha dimostrato all'elettorato di centrodestra che sa fare anche il capo-coalizione, usando anche qualche modo spiccio per ricompattare l'alleanza in un momento complicato, come una volta riusciva a Berlusconi. "Del governo ne riparleremo più avanti, ma si può ripartire dalla prima coalizione, la nostra". Ma un pezzo degli eletti di Forza Italia già non lo segue

Ma che ha fatto Salvini?, si chiedevano sgomenti quelli che hanno votato a destra nella sera dello strappo, il voto autonomo alla Bernini anziché la scheda bianca. Gli è andata bene, sennò cadevano Lombardia e Veneto, borbotta ora Umberto Bossi l’unico che non ha tradito Berlusconi annullando la scheda invece di scrivere Bernini. E invece Matteo Salvini – il populista che brandisce con la Costituzione e il Vangelo – l’ha vinta da solo, l’ha vinta per sé: “Veloci, concreti e coerenti. Prossimo obiettivo, far nascere un governo”. Assomiglia un po’ a “Arrivo, arrivo“, il tweet di Renzi in movimento verso Palazzo Chigi: l’ambizione è quella, l’energia pure, la spregiudicatezza pure. La sua performance in Parlamento, al secondo giorno da senatore, è il primo chiodo della scalata al Grand Capucin del centrodestra: davanti ha voti e seggi che ora sono berlusconiani, ma che sente già suoi.

Con quello “strappo salutare” (come lo chiama Toti) sul voto alla Bernini – che a cascata ha portato all’elezione della Alberti Casellati – mette sul campo la “missione perfetta”. Tenta di dimostrare al Quirinale, prima di tutto, che non fa solo i comizi in piazza, ma che può meritare lui l’incarico perché ha saputo mantenere compatto il centrodestra, la coalizione con più seggi nonostante tutto. Ma ha anche seminato per le elezioni che verranno, a maggio e poi ancora nel 2019, perché si è assicurato un altro pezzo di Nord con la candidatura di Fedriga in Friuli Venezia Giulia (in cambio di un presidente del Senato che durerà non si sa quando, 6 mesi, un anno). E ha dimostrato all’elettorato di centrodestra che sa fare anche il capo-coalizione, usando anche qualche modo spiccio per ricompattare l’alleanza in un momento complicato, come una volta riusciva a Berlusconi.

Nei numeri c’è il coefficiente di difficoltà molto più alto rispetto a quella di Luigi Di Maio. Dietro di sé non aveva un solo corpaccione, la pattuglia dei grillini che si muove come un sol’uomo. Ma nei numeri si nascondono anche tutte le sue debolezze: mentre la Alberti Casellati prende quasi tutti i voti che doveva (ne mancano 6-7), a Fico ne mancano almeno 60, che finiscono nelle bianche, e sono quasi sicuramente di Forza Italia. E’ così che Salvini si porta dietro a fatica una coalizione come se fosse un peso morto. “Del governo ne riparleremo più avanti, ma si può ripartire dalla prima coalizione che è quella del centrodestra” prova a galvanizzare l’ambiente Salvini. Un pezzo di Forza Italia già non lo segue: “Sono preoccupato – dice sconsolato Romani, scegliendo in modo spericolato di farsi accompagnare proprio dalla figlia del telefonino – Non ho condiviso queste scelte, non per la mia persona ma per quello che ci aspetta. Ora vediamo cosa accade. Non mi pronuncio, spero di avere torto. Le geometrie che si delineano con le due votazioni di questa mattina vanno in una direzione da me non auspicata. Io ho fatto un’altra battaglia politica”. 

Dall’altra parte la mossa di Berlusconi, la giravolta dalla trincea per Romani alla migliore offerta con la Casellati, è stata obbligata, per uscire dall’angolo. E’ sembrata  quella volta in cui Berlusconi minacciò di togliere la fiducia al governo Letta, mandò Brunetta a dire le cose peggiori del Pd e di tutto il mondo e poi il giorno dopo si presentò in Aula, al Senato, per dire che la fiducia il Pdl l’avrebbe votata. E questa volta è stato lo stesso: “Se non troviamo una soluzione la colpa della rottura dell’alleanza ricadrà tutta su Forza Italia” avvisano Brunetta e Romani nella notte. Finisce malissimo, racconta Fabrizio D’Esposito sul Fatto. E Forza Italia si sbriciola un po’ di più. C’è chi comincia a cannoneggiare contro la gestione del partito di Niccolò Ghedini e qualcun altro che chiede aiuto a Tajani perché qui tutto crolla.

È la ribalta che parla, per una volta, non il retroscena. Berlusconi scende nel cortile di Palazzo Grazioli, aspetta che Salvini finisca una telefonata, pretende di accompagnarlo al cancello, poi alla macchina, a braccetto. Finge di non vedere i giornalisti, ma butta ossessivamente l’occhio. Stringe la mano a Salvini, poi gli dà un altro colpetto mentre il segretario della Lega si appoggia allo sportello. Nel mentre gli dice qualcosa all’orecchio, forse nulla. Da manuale: l’alleanza è salda, noi due siamo uniti, la vittoria è di tutti, ho il pieno controllo, sono in partita. Sono anche le parole che più o meno usa, ma il contrasto è con l’immagine di un signore che sembra invecchiato tutto d’un colpo, l’ennesimo, l’aria abbattuta, anzi sbattutsa, stanca, forse per l’alzataccia al mattino. Si volta e si vede perfino una piccola ritrosa. Come un supereroe quando capisce che i poteri non scomparsi, Berlusconi sembra stordito, è come se non capisse cos’è successo, come se non accettasse che da qualche tempo non va più tutto a buca come succedeva prima, sempre. Di nuovo quel rumore, chi è che bussa? Nemmeno il ritorno di Gianni Letta – gli incontri con Lotti, il dialogo con i leghisti – è più sufficiente. Salvini a Palazzo Grazioli è venuto a festeggiare l’elezione della Casellati, dice un’agenzia. La traduzione è che è venuto a prendersi l’ultimo pezzo di scalpo.

Dice Casini a Cazzullo: “Ora dirà di aver vinto: e in effetti la Casellati è più berlusconiana di lui. Ma politicamente è una sconfitta cocente. Salvini l’ha umiliato“. I grillini, sì, sono stati costretti a scrivere sulla scheda il nome di una sua ultrà, sempre in prima linea della Grande Guerra di posizione tra i “magistrati comunisti” e i berlusconiani “martiri della libertà“. Ma lui non è riuscito a farli passare sotto al giogo, cioè il faccia a faccia “col mostro”. La presidente del Senato è, sì, di Forza Italia, ma è il terzo nome preferito, per lui che voleva Romani. Forza Italia è, sì, “centrale nella coalizione”, come dicono senza euforia tutti i suoi parlamentari, ma l’indicazione della Alberti Casellati è solo un atto di resistenza – il quartultimo, il penultimo, l’ultimo, chissà – alla scalata lenta e progressiva di Salvini, che lui ha solo rimandato. Un contentino. L’indicazione della Casellati, figura quasi dimenticata, persa nei ricordi di legislature passate, è solo un atto d’orgoglio dettato dai capigruppo: la Bernini no, gli dicono, almeno non facciamoci dettare i nomi dalla Lega. E allora ok, la Casellati, che almeno è come dire Ghedini. Ma di nuovo quel rumore, chi è che bussa?

Il conto alla rovescia non è partito con la condanna, né con la decadenza, ma scandito dalle elezioni, un anno dopo l’altro. Una clessidra ribaltata forse a partire da quella manifestazione anti-Renzi organizzata dalla Lega, a Bologna: su quel palco Berlusconi fu convinto a salire da Toti e poi non voleva più scendere, credendo che fosse suo, con Salvini che si appostò accanto al podio come un buttafuori di un discopub e la folla che già fischiava per la noia per la solita tiritera dal 1994. Ecco di nuovo quel rumore: il passaggio del testimone bussa di nuovo. Anzi, no, quel rumore forse già è passato. Ancora qualcuno deve ricordargli quando.