Politica

Basta etichette politiche: le differenze tra i partiti non sono sempre invalicabili

La situazione di stallo politico nella quale l’Italia si trova dopo le recenti elezioni è qualcosa che mette davvero angoscia in chi sperava che il voto servisse a riposizionare le scelte politiche del popolo e a ripartire con una nuova stagione politica di rinnovamento e speranza. Purtroppo chi era al potere ha tentato di “forzare la mano” portando in fretta e furia il Parlamento ad approvare con sette voti di fiducia il Rosatellum, cioè l’ennesima schiforma elettorale studiata apposta (sulla base di sondaggi) per obbligare i vincenti ad allearsi coi perdenti ed è finita esattamente così, ma la sconfitta è stata di tali dimensioni da far comunque saltare quel piano.

Questo accade anche a causa di una terminologia politica del tutto obsoleta. Continuano a circolare stantie etichette partitiche (destra, sinistra, progressista, conservatore, riformista, comunista, ecc.) che perdono oggi ogni significato di fronte alla sfrontata pervicacia di chi promette tanto e mantiene poco, facendo solo quello che rientra nella propria diretta convenienza (partitica, quando non del tutto personale). Per aiutare davvero l’elettore a scegliere sarebbe bene staccarsi definitivamente da quelle etichette, legate a ideologie o consuetudini cui più nessun partito si sente ancora vincolato. Dividendo i partiti tra “liberisti” e “social-popolari” si darebbe oggi certamente una classificazione migliore in relazione ai programmi sociali e alle tendenze socio-economiche di chi le propone.

Nel mio post precedente, “Elezioni 2018, vedo bene una coalizione di governo 5stelle con Fratelli d’Italia e Lega“, pur non evidenziando ancora questo criterio, usavo già privatamente questa corretta riclassificazione partitica. Il metodo della riclassificazione dei dati, aggiornati periodicamente con moderni criteri di valutazione, consente di concludere con metodi standardizzati e coerenti con l’universo presente ogni analisi specialistica (nella concessione dei fidi, nel commercio, ecc.) ed è irrinunciabile in ogni campo. L’esame di questa elezione generale, condotta in questo modo, darebbe ai vincitori (per l’appunto i tre che ho citato) sufficiente omogeneità per unire le proprie forze, mettendo quindi fine alla fase egemonica sia del berlusconismo che del renzismo.

Guardando ai loro programmi e alla loro storia è possibile catalogare tutti e tre i vincitori nell’area “social-popolare” (per il M5S bisogna ovviamente accontentarsi dell’eloquio suadente del candidato premier Di Maio). Quello che conta non è la loro storia politica o partitica ma quello che insieme possono fare per avviare il nuovo modello social-popolare capace di mettere in soffitta definitivamente le ottocentesche sinistre-destre ecc. utili ormai solo alla propaganda elettorale. Differenze fra i tre partiti ne rimangono ovviamente tante, praticamente su ogni punto in discussione, ma questo è normale per partiti diversi che devono necessariamente differenziarsi, tuttavia non sono sempre ostacoli invalicabili. Sul reddito di cittadinanza per esempio, uno dei punti più chiacchierati, la realtà è che tutti lo vogliono ma ognuno vuole chiamarlo in modo diverso (reddito di cittadinanza, reddito di inclusione, ecc.,) per distinguersi dagli altri.

L’altro grande punto di scontro fra ex “destre” e “sinistre” è quello sull’immigrazione, ma nell’area “social-popolare” non c’è spazio per razzismo e isolazionismo, quindi l’immigrazione verrebbe regolata nel modo giusto, cioè accogliendo con tutta l’assistenza necessaria i rifugiati, ma regolando severamente tutti gli altri casi perché ciascuno deve avere la possibilità di avere una vita dignitosa là dove è nato, tra i suoi cari, le sue tradizioni e le sue eredità culturali, che cambierà se e quando ne ha voglia, non perché costretto dalla povertà. Le nazioni ricche devono aiutare quelle povere a risolvere i loro problemi a casa loro, non cercando di sfruttare in diversi modi la loro indigenza.

L’integrazione etnica è abbastanza facile da raggiungere, quella culturale no. Se non è spontanea da entrambe le parti è molto difficile che avvenga ad un livello soddisfacente. Quindi è difficilissima da regolare a livello centrale con normativa generale. In moltissimi casi è supportata (anche in America) più a scopo politico-elettorale che economico. La cittadinanza per chi è già in Italia può (e deve) essere concessa con maggiore rapidità, indipendentemente dalla condizione economica, quando il livello di integrazione sociale sia soddisfacente.

Su euro ed Europa le posizioni sono già da anni molto critiche ma è del tutto naturale. Un euro che non sia vera moneta unica non può esistere perché crea esso stesso disparità tra le nazioni aderenti impossibili da equilibrare. Ma anche un’Europa davvero unita in entità politica, economica e territoriale non può tardare a costituirsi in un mondo che diventa globale e dominato da superpotenze in rapida crescita soprattutto nell’estremo oriente.