Cinema

La transessualità e il diritto di abitare il nostro corpo nel modo che vogliamo

Il rapporto col mio corpo, in passato, non era dei migliori. Non riconoscendomi nel sistema imperante, predominato da un “maschile” che tende a condannare i soggetti ritenuti fuori norma, mi rifugiavo nella dimensione femminile – soprattutto da bambino – imitandone gesti e movenze, trovando forza e ragion d’essere in quella dimensione. Tutto ciò rendeva di me un “effeminato”. Il risultato dell’incapacità di vivere il corpo (e nel corpo) per quello che ero davvero: una persona che, contrariamente a ciò che dovevo essere, era attratta da ragazzi del suo stesso sesso. A ciò si aggiungeva una fisicità considerata non bella, perché ero anche grasso. Frocio e ciccione, insomma. Vi lascio immaginare il tenore dei commenti a cui è stata esposta la mia giovinezza.

Faccio questa premessa perché ho avuto l’onore (e il piacere) di essere stato invitato al Sardinia Queer Short Film Festival nel weekend appena trascorso. Qui sono successe due cose molto importanti: ho conosciuto Massimo Milani, che coordina il Palermo Pride, e tra i vari film proposti ho visto il documentario di Massimiliano Ferraina e di Simone Di Giacomantonio, intitolato My nature. Due fatti considerevoli, dicevo, perché mi hanno ricordato come vivevo la mancanza di accettazione e la discrasia tra ciò che ero fisicamente e ciò che sentivo di essere a livello psichico. E di come, ad un certo punto, quegli opposti si sono incontrati.

La storia raccontata in My nature, infatti, non è solo quella di una trasformazione esteriore – Simone parla della sua transizione da donna a uomo – ma anche il racconto di un delicato passaggio interiore. La vita delle persone transessuali, da quello che ho potuto capire ad oggi (mi scuso sin d’ora se non sarò esaustivo, ma a mia discolpa dirò che non ho alcuna pretesa di verità), sembra strutturarsi sul recupero di una lacerazione: tra dimensione fisica e ciò che si sente di essere. L’aspetto qualificante del film non è solo la delicatezza con cui affronta la questione – non sono un critico cinematrografico, ma oserei definire la storia come “sussurrata” a chi la ascolta – ma anche l’averla legata ad un altro tipo di evoluzione: quella del .

Simone non è chiamato solo ad assomigliare all’idea che ha di se stesso, per parafrasare il monologo di Agrado in Tutto su mia madre, ma anche a costruire un’identità non esclusivamente corporea. È la necessità di trovare uno spazio nell’esistenza fatto di scelte ponderate e consapevoli, di contatto con l’altro, di recupero dell’affettività, di poter scegliere i propri percorsi: personali, professionali, affettivi. Non sono una persona trans, ma ciò non mi ha impedito di riconoscermi in quella narrazione proprio perché anch’io ho fatto lo stesso percorso. Riappacificandomi con il corpo per legarlo all’identità in cui più mi riconoscevo. Nel mio caso, il passaggio cruciale è stato quello del coming out. Nel caso di Simone, anche la transizione. Quindi è arrivata la seconda trasformazione: quella dello spirito.

A conferire ancora più forza a questa impressione è stato il discorso di Milani, chiamata a far parte della giuria del festival e a presentare il documentario di Ferraina e Di Giacomantonio: Massimo ha mantenuto il suo nome maschile, ma ha costruito la sua identità fisica su un corpo femminile. «Sono quello che sono, non ho voluto cambiare il mio nome perché non rinnego il passato», ha dichiarato ad una platea che l’ascoltava, rapita dalla poderosità del suo essere. «Per questo a volte mi chiamo al maschile e a volte al femminile. Questa è la mia scelta, ovviamente, e non pretendo che tutti debbano seguirla o accettarla. Ma io sono questo». Essere ciò che si è. Non dovrebbe essere difficile, apparentemente, se non vivessimo in un mondo che sembra impostato più sul rispetto dei divieti che sullo sviluppo delle potenzialità.

La storia di queste due persone, ai miei occhi così straordinarie, mi ha insegnato in altre parole che il corpo non è il fine ultimo, né una prigione identitaria, ma uno strumento con il quale siamo chiamati a lasciare qualcosa di noi al mondo che abitiamo. Affinché questo possa avvenire nel pieno delle nostre potenzialità, abbiamo il diritto di abitare nel migliore dei modi possibili la nostra dimora fisica. Ciò può avvenire solo quando si ricompone quella ferita tra ciò che si è davvero e la finzione del “dover essere”, imposta da modelli che non ci somigliano. My nature ci insegna questo. La vita delle persone con cui mi sono incrociato, anche.