Società

‘Guai ai poveri’, anche questo è l’America. E l’Europa deve capirlo

Quando ho finito di leggere Guai ai poveri. La faccia triste dell’America di Elisabetta Grande (insegnante di diritto comparato e grande esperta di quello statunitense), mi sono accorto che avevo esaurito i post-it. Cioè li avevo utilizzati tutti appiccicandoli alle pagine per ricordarmi le affermazioni e soprattutto i dati riportati dall’autrice. Raramente un libro mi ha preso così tanto quanto questo. Quella che la Grande descrive sembra una realtà distopica, tipo Mad Max, ma invece è la realtà neanche troppo sommersa degli States. La realtà dei poveri, una realtà che ben conosco a livello italiano ma che mai più immaginavo raggiungesse certi livelli nella “civilissima” America. Ad onor del vero qualche voce mi era giunta. Come quella di Sergio Rosso, direttore degli Asili Notturni di Torino, che a dicembre mi diceva “L’Italia è ancora un paese ospitale. Io torno adesso da Washington. Là nevicava e le famiglie dei poveri erano sulla strada.”

Ma ecco alcune delle frasi che hanno meritato i post-it: “Nel 2011 ci sono più di 40 milioni di lavoratori negli Stati Unti che lavorano con un salario da povero (…) Nel 2015 la metà di tutti i lavoratori americani ha una paga oraria al limite della sopravvivenza (…) Nel 2004 quando iniziarono a contarli, i bimbi homeless erano 656mila, ma nell’anno scolastico 2012-2013 erano aumentati fino a 1.300mila (…) il National Law center on Homeless and poverty, contando coloro che in un intero anno hanno come casa un dormitorio o la strada, stima il loro numero in una cifra che varia dai due milioni e mezzo ai tre milioni e mezzo. A questi vanno aggiunti coloro che vivono doubled-up (un po’ nei dormitori ed un po’ in una casa) il cui numero nel 2013 è di 7.700mila”.

Questi i numeri. Ma quello che più colpisce e che trova sicuro riscontro anche nella nostra realtà, è che sono sempre più numerosi i poveri che lavorano.  Quando – con le loro peraltro tristissime facce – Paolo Gentiloni e Pier Carlo Padoan dicono, il primo, “record di occupati”, e il secondo “la ripresa c’è”, mi viene da sorridere amaramente. Gli occupati sono i ragazzi dei call-center, di Foodora, di Just It, o i giornalisti – non scrivo forse il mio post su un quotidiano? – dei quali otto su dieci hanno un reddito sotto la soglia di povertà. Gli occupati sono nel terziario, perché il manifatturiero in Italia (come in America) ha delocalizzato tutto il delocalizzabile.

Ma torniamo all’America, dove, di nuovo come anche da noi, i ricchi sono sempre più ricchi “L’un per cento più ricco da solo assorbe il 20 per cento del reddito nazionale”. I ricchi sono sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri.

Ma allora: cosa c’è di così sconvolgente nella realtà americana? C’è che i poveri hanno sempre meno garanzie. C’è che i poveri possono finire in galera anche solo perché dormono nella loro auto, oppure chiedono l’elemosina oppure urinano contro un albero, perché non hanno i soldi per entrare in un W.c.. C’è – e questo è forse l’aspetto più brutale – che i poveri sono visti come un qualcosa di fastidioso e distorto, quando non criminalizzati. Non sono ricchi, non sono felici, e quello invece è il Paese dei multimilionari e della felicità sancita nella dichiarazione di indipendenza: “Noi riteniamo che le seguenti verità siano di per sé stesse evidenti; che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono dotati dal loro Creatore di alcuni Diritti inalienabili, che fra questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità”.

L’Europa, si sa, guarda agli americani come a un faro. I sintomi per fare la loro (brutta) fine ci sono tutti. Leggiamo tutti questo libro, anche solo per motivi egoistici: oggi non siamo poveri, ma domani potremmo esserlo.