Cultura

Concorsi truccati, un grande classico. Quando il trombato era Giambattista Vico

A leggere le intercettazioni riportate nel provvedimento col quale il gip di Firenze ha disposto l’arresto domiciliare per 7 docenti universitari e l’interdizione dall’insegnamento per altri 22, a seguito dell’accertamento di “sistematici accordi corruttivi”, sembra sia naturale, fra illustri cattedratici, esprimersi in squisito gergo malavitoso: per alludere, sembra, a manovre da ordire sulla pelle di ricercatori meritevoli, tenuti a rinunciare alla possibilità di abilitarsi per lasciare spazio ai raccomandati di turno, si usavano espressioni quali “prezzo da pagare”, “logiche di scambio”, “partite trasversali”; per indurre, invece, all’obbedienza l’interlocutore renitente a sacrificare le proprie aspirazioni sull’altare della logica spartitoria della “nuova cupola” dei luminari del Diritto tributario, il discorso era più brutale: “Che fai ricorso? Però così ti giochi la carriera”. Minaccia grave, se vera, là dove si pensi al prezzo di vita altissimo che di solito paga chi denuncia il malaffare.

Ancor più dell’ostentata, tartufesca indignazione d’occasione, rattrista l’apparentemente ingenua rassegnazione di chi addossa la responsabilità dei ripetuti scandali sui concorsi, che ci sono sempre stati e son finiti sempre in gloria, alla “normativa che governa l’Università italiana (…) bizantina e farraginosa, costruita su premesse ideologiche, inapplicabile alla pratica”. Troppo comodo: gli ormai rarissimi frequentatori dell’ingiustamente aborrita “foresta pietrificata degli studi umanistici” sanno bene che la storia dell’istituzione universitaria è intessuta di soprusi ai danni dei più meritevoli, destinati a lasciare nessuna o al più poche e confuse tracce. L’apparato educativo strangola, infatti, da sempre il pensiero nascente o almeno lo castra: servendo ai dominanti teste innocue, è bene che i discenti vengano ingozzati con pastoni dal gergo opaco a trama subsintattica.

Chi se lo ricorda più, tanto per non tornare troppo indietro nel tempo, che nel 1577 uno studente tedesco, iscritto all’universitas legistarum padovana raccontava come i docenti barassero simulando obiezioni trionfalmente ribattute; imbrogliassero questioni ovvie; disputassero serissimi su cose futili; deformassero premesse ovvie con variazioni impercettibili, fino a esiti paradossali, così che gli studenti imparassero astuzie fraudolente? Eppure, che simili tecniche operino selezioni negative, deprimendo i talenti intellettuali, l’aveva già visto, 10 anni prima, Jacques Cujas, nel voyage en Italie, il quale non aveva avuto la fortuna d’incontrare alcuno dei dottissimi giureconsulti di cui si diceva fosse molto feconda l’Italia, essendosi imbattuto piuttosto in campioni garruli, i quali farneticavano, pagati, “docendo et disputando”, senza neppure capirsi essi stessi; i meno sgangherati vivevano su minuscoli imparaticci, ignari del resto; nessuno ne aveva conosciuto che lavorasse onestamente.

Nel lavorio selettivo che fissa le sorti sociali degli individui, peraltro, gli appetiti sfrenati servono, da sempre, all’istituzione: uno esiste in quanto gli altri lo riconoscano e le chiavi per la valutazione stanno in mano agli “integrati”, individui, cioè, torbidi, sospettosi, lividi, che hanno l’occhio lesto sui peccati d’intelligenza e classificano al primo passo ogni animale diverso. Lo imparò a sue spese Giambattista Vico, etimologo visionario di fronte al quale molti sapientoni togati sparivano, eppure irriso dall’establishement colto napoletano: “vrai pédant”, secondo l’ambasciatore piemontese Solaro di Breglia, ma anche stravagante, fumoso, lunatico o addirittura matto tout court. Guidava lo scherno Nicola Capasso, dinosauro ciarlante, tanto furbo quanto pusillanime, circondato, invece, dalla fama d’essere “uno de’ più begli spiriti del secolo”, se “spirito” significa estri buffoneschi da linguaiolo biforcuto e latinista maccheronico, il quale, pur non pubblicando neppure una sillaba, posava a luminare.

Dall’alto del suo stipendio di 1.100 scudi, questo cattedratico dalle mani lunghe, si poteva permettere di soprannominare il collega minor, che guadagnava 11 volte meno, Tisicuzzus, perché, “stralunato e smunto”, esalava miseria. Correva l’anno 1723 allorché “vacò” la cattedra mattutina di ius civile a Napoli e Vico quella cattedra se la sognava: davanti a lui, non esistevano antagonisti diretti, essendo 8 le cattedre a concorso; insegnava all’università da 24 anni; vantava tre libri importantissimi, non contando i contributi allo scibile extragiuridico; aveva combinato meraviglie nel torneo orale, eludendo, astutissimo, ogni pericolo e lasciando stupiti i giudici, che erano suoi colleghi tutti meno anziani accademicamente.

Le cose non andarono, però, secondo le sue legittime aspettative: la cattedra era destinata a tal Domenico Gentile, protetto dal viceré cardinale Friederich von Althann, i cui desideri furono eseguiti dal solito Nicola Capasso, autorità anche nella filosofia del malaffare. Neanche a dirlo, i contemporanei deplorarono eufemisticamente lo scempio concorsuale inflitto a master Tisicuzzus: “Sebbene segnalato egli si fosse tra’ molti concorrenti, onde i voti del pubblico eran tutti per lui, pure verificossi quell’antico ditterio che «val più un’oncia di fortuna, che una libbra di sapere»”. L’atroce scacco, pur se fugacemente evocato, non potendo essere imputato a leggi “bizantine e farraginose”, lo fu dunque alla malasorte. Peccato, insomma, che a Vico mancasse “una certa propizia stella”?