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Israele-Palestina, andare oltre il conflitto permanente è possibile (anzi necessario)

La perdurante situazione di guerra civile in Israele, recentemente riacutizzatasi, è da molti anni oggetto di analisi approfondite da parte di molti intellettuali israeliani ed ebrei cittadini di altri paesi. In Italia, apparentemente, queste analisi non hanno avuto grande diffusione. Dovrebbe essere chiaro come la stigmatizzazione degli episodi più violenti di questa guerra civile, doverosa dal punto di vista morale, risulti monca se non accompagnata almeno alla lettura delle analisi e riflessioni di chi in Israele lo ha fondato o ci vive. La comunità degli intellettuali israeliani è vivace e poliedrica: merita tutta la nostra attenzione.

Il Sionismo fu uno dei grandi nazionalismi ottocenteschi, figlio della stessa matrice romantica del Risorgimento italiano e degli analoghi e contemporanei movimenti sorti in Germania, in Belgio o nella Serbia e nell’Ungheria. Tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento i nazionalismi portarono, attraverso guerre locali, o approfittando della Prima guerra mondiale, alla costituzione di molti stati europei, tra i quali l’Italia e la Germania. Anche Israele nacque (in ritardo) con una guerra locale combattuta, anche con atti terroristici, da patrioti nazionalisti, ma col problema aggiuntivo di nascere su un territorio in cui il popolo che voleva crearlo rappresentava una minoranza anziché una maggioranza. I leaders sionisti erano perfettamente consapevoli di questo problema: alcuni, come Ben Gurion o Arlozoroff, pensavano che fosse possibile integrare la popolazione palestinese nel futuro stato di Israele (come avvenne per i Palestinesi che risiedevano nei confini del 1948); altri, come Jabotinsky, pensavano che lo stato di Israele sarebbe stato possibile soltanto dietro il “muro di ferro” delle armi e dell’esercito. Il discorso che Jabotinsky pronunciò nel 1923 è esplicito: “… è assolutamente impossibile ottenere il consenso volontario degli Arabi della Palestina per cambiare la Palestina da un paese arabo a uno con una maggioranza ebraica. … La colonizzazione può avere soltanto uno scopo e gli Arabi Palestinesi non possono accettarlo … può procedere e svilupparsi soltanto dietro la protezione di un potere indipendente dalla popolazione nativa – dietro un muro di ferro che la popolazione nativa non possa infrangere. … Su questo argomento non c’è differenza tra i nostri ‘militaristi’ e i nostri ‘vegetariani’. Eccetto che i primi vorrebbero che il muro di ferro fosse costituito da soldati ebrei mentre gli altri preferirebbero che i soldati fossero britannici”.

Criticare oggi il Sionismo dell’ottocento non ha alcun senso: è come criticare il Risorgimento. Il passato non può essere cancellato, bisogna superarlo. Come lucidamente analizzato ad esempio da Shlomo Sand, gli stati europei hanno (o dovrebbero avere) superato il nazionalismo ottocentesco: se nel 1861 furono coloro che si sentivano italiani a creare lo Stato, o a spingere i Savoia a farlo, oggi è lo Stato a definire italiani i cittadini sui quali esercita la sua giurisdizione. Lo Stato non fa questioni etniche ma normative: sono italiani con pieno diritto non solo i discendenti dei patrioti, ma anche altoatesini di lingua tedesca e ladina, valdostani che parlano il Patois, ebrei, stranieri naturalizzati etc.: lo stato post-risorgimentale ha la forza e la maturità di negare qualunque valore legale alle reali o presunte identificazioni etnico-religiose, e ha bisogno di una sola categoria politico-civica, la cittadinanza, che coincide con la nazionalità. Questo passo è mancato allo Stato di Israele: in Israele la cittadinanza non coincide con la nazionalità e i cittadini sono classificati in base a nazionalità etnico-religiose estremamente arbitrarie, dalle quali derivano poi diritti legali quali il matrimonio (solo religioso, in Israele non è previsto il matrimonio civile), l’ottenimento della cittadinanza etc. Israele non può approdare al nazionalismo europeo moderno perché come “Stato degli ebrei” ha bisogno di definire una categoria (gli ebrei) applicabile ad individui sui quali non esercita giurisdizione, in quanto cittadini di altri Stati, e rendere i membri di questa categoria portatori di diritti politici in Israele, quali l’Aliya. Per converso, il possesso della cittadinanza israeliana non garantisce ai cittadini uguaglianza di nazionalità e lo Stato distingue cittadini ebrei, drusi, arabi, etc.

Per queste ragioni Sammy Smooha, sociologo dell’Università di Haifa ha definito Israele una “democrazia etnica” e Uzzi Ornan ha fondato il movimento “Ani Israeli” (“Io sono israeliano”) che richiede l’abolizione della distinzione tra nazionalità e cittadinanza, e l’uguaglianza dei diritti di tutti i cittadini (rimarrebbero ancora esclusi i Palestinesi dei Territori Occupati, fino alla definizione della sovranità politica locale). Al movimento hanno aderito politici e intellettuali di grande spessore come Shulamit Aloni, deceduta nel 2014, e Uri Avnery. Ad alcuni politici israeliani, da Ben Gurion a Peres e Rabin (gli ultimi due premi Nobel per la pace insieme ad Arafat), va riconosciuto il merito di avere considerato la guerra civile israelo-palestinese come qualcosa da superare; molti altri, tra i quali la dirigenza politica attuale, sembrano invece ritenere lo stato di guerra civile permanente come una soluzione accettabile, che consente di mantenere non solo le conquiste territoriali, ma anche la discriminazione legale della popolazione, e sia il Parlamento che i tribunali israeliani hanno sempre negato l’esistenza di una nazionalità israeliana.

Ignorare le analisi degli intellettuali qui citati e di molti altri, che lo spazio non consente di citare, impoverisce enormemente il discorso e riduce la guerra civile a un susseguirsi di brutalità anziché all’effetto di cause che possono essere analizzate e forse rimosse. Purtroppo, molti intellettuali israeliani sono disprezzati dai loro connazionali come “ebrei che odiano se stessi” e poco noti all’estero; sarebbe un grande successo se questo articolo invogliasse i lettori a conoscerne il pensiero.