Cronaca

Da Milano a Manchester, anche l’orrore conosce le sue mode

Dopo l’orrore di Manchester sta immediatamente ripartendo la sceneggiatura stantia dell’esibizione muscolare, al grido di “non ci faremo intimidire”, accompagnata dalla richiesta rituale e generica di maggiore sicurezza. Due emerite scemenze: il non farsi intimidire significa continuare imperterriti in atteggiamenti e prese di posizione che non hanno fornito il benché minimo contributo positivo nel fronteggiare la furia terrorista? Oppure presuppone un surplus di gestualità dichiarativa, tipo sganciare una super bomba su qualche grotta afgana o marciare sugli Champs-Elysées canticchiando la Marseillaise?

Migliorare la sicurezza, intesa come safety, cioè incolumità (non come security, ovvero diritti e tutele del proprio posto nella società) si traduce in: un poliziotto a ogni crocevia, più telecamere nei luoghi pubblici, una generalizzata licenza di sparare per uccidere, all’insegna del motto legge&ordine, ridotto a fai da te?

Appunto, sciocche teatralità inconcludenti che portano a una sola conclusione: se quegli altri ancora non hanno vinto, noi di certo stiamo perdendo. Una sconfitta accelerata dal fatto che il comandante in capo del fronte occidentale – il nostro fronte – è un infantile narcisista affetto da feticismo del capello, che cerca impazientemente la quadra per un più che problematico lieto fine andando nell’Arabia Saudita wahabita, ossia laddove impera la versione islamica più radicale e anti-occidentale, a chiedere aiuto contro il terrorismo; proprio a chi lo finanzia da sempre. E per ingraziarselo, gli assicura un arsenale da 115 miliardi di dollari. Nella migliore tradizione mediorientale per cui i combattenti addestrati e armati da Cia e Pentagono diventano rapidamente la minaccia peggiore per gli Usa e l’Occidente.

Appunto, stiamo andando in testa nella corsa a chi capisce meno. Però sbraita. Esaminiamo gli autori dei due ultimi attentati: a Milano e Manchester, alla ricerca di tratti comuni che mettano in luce aspetti reali di tali misfatti su cui innestare contromosse: l’Ismail Tommaso Ben Yousef Hosni, che ha aggredito a coltellate due militari e un poliziotto nella stazione centrale di Milano, è un italo-tunisino di 21 anni strafatto di cocaina; il Salman Abedi, kamikaze nella Manchester Arena è un 23enne britannico con ascendenze libiche di ben nota psicolabilità. Il fatto che di recente abbiano pensato bene di ornare il mento di barbe maomettane e collezionare materiale Isis non risulta l’aspetto decisivo, visto che dalle nostre parti il Califfato è solo un (orrido) franchising che distribuisce risorse identitarie a sbandati; alla ricerca di contenitori concettuali per generici risentimenti e confuse frustrazioni.

Una tipologia umana difficilmente individuabile, nel momento in cui la sua rabbia tracima in volontà di colpire bersagli indiscriminati; visto che si mimetizza tra milioni di umani apparentemente non dissimili. Per questo è sbagliato presumere di bloccare il fenomeno a valle (quando entra in azione) o di lato (i finanziatori nell’ombra). La chiave del problema sta nell’intervenire a monte, cioè nelle risaie metaforiche dove si riproducono questi piranha: le periferie del disagio e dell’emarginazione, abitate da questi nostri concittadini di seconda o terza generazione. Incattiviti e fuori di testa.

Solo attraverso politiche che spengano la rabbia sociale, prosciugandone le matrici, ridurremo la capacità del richiamo islamista di reclutare manovalanza. Ossia azioni di lunga durata, che contrastano con la frenesia di successi immediati di governanti alla ricerca del consenso e di popolazioni impaurite in attesa di atti dimostrativi. Perché il terrorismo si vince sul terreno. E questo è il campo sociale, non di battaglia. Con tempi che – purtroppo – non possono essere brevi. Soprattutto con azioni intelligenti, in quanto mirate. Dunque, con programmi indirizzati a ridurre gli aspetti imitativi insiti in queste esplosioni di demenza omicida.

Perché anche l’orrore conosce le sue mode. Ad esempio, si direbbe superata la tendenza del dirottare aerei; che – dalla fine degli anni Ottanta – occupò  a lungo le cronache e ispirò serie infinite di film terrorizzanti.