Politica

Da Maria Elena Boschi a Matteo Salvini, se il potere diventa un giocattolo

I loro padri spirituali un po’ si vergognavano, questi fanno spallucce. Per un baby boomer del secondo dopoguerra, che ha passato la propria vita di analista politico a esecrare la classe dirigente della Prima Repubblica – i dorotei veneti del PiRuBi (da Flaminio Piccoli, Mariano Rumor e Antonio Bisaglia), i “craxatori” milanesi, la banda andreottiana laziale-sicula, i laici che raccoglievano le briciole sotto il tavolo (tipo i repubblicani Aristide Gunnella e Oscar Mammi) e perfino il “compagno “G”, quel Primo Greganti che lasciò intuire come il Partito comunista non si approvvigionasse solo con “l’oro di Mosca” – sembra impossibile che da settantenne si trovi a rivalutare tale marmaglia, se messa a confronto con le nuove leve della politica italiana. Perché la cosa che più terrorizza, tra le altre, è che questi/e qui considerano l’uso indebito delle istituzioni, svilite a possedimento o bancomat, un comportamento assolutamente naturale.

L’icona di questo fenomeno sembra essere diventata la sottosegretaria alla presidenza del Consiglio Maria Elena Boschi; che non si capisce se è solamente incosciente o anche tracotante. Certo non sembra recitare, quando manifesta il disappunto da nume offeso se qualcuno osa portare alla luce gli altarini familiari in sede di banca Etruria. Tanto da sgranare gli occhi per lo stupore se non è risultato sufficiente a chiudere la faccenda di malversazioni varie, che coinvolgono gravemente anche il di lei genitore, la trepida affermazione di stima filiale nei confronti del papy, definito “una brava persona. Come se tale dichiarazione potesse funzionare da definitiva prova a discarico penale e lavacro etico.

Di certo, questi personaggi nuovi affrontano l’impegno pubblico con una spensieratezza che oltrepassa le soglie dell’infantilismo. Per cui, da un lato, il potere diventa un giocattolo da disporre a piacimento; dall’altro, si abilita e giustifica la propria incoscienza impunita con la convinzione che la platea di riferimento sarebbe composta da un pubblico disponibile a bersi qualunque scempiaggine. E il dramma è che, grazie alla tecnica della reiterazione all’infinito di spudorate banalizzazioni, questi starnazzamenti diventano verità certificate.

Insomma, l’impudenza che si alimenta nella semplificazione e viceversa, a conferma che gli antichi capisaldi della buona politica – studio e impegno – sono diventati delle anticaglie, da liquidare con il disprezzo ostentato per la cultura e le competenze: irrise come fisime da professoroni.

Da qui il via libera a ogni cialtronata, per cui questo martedì, nello spazio televisivo non propriamente raffinato di Matrix, Matteo Salvini può permettersi l’elegante e umanistico parallelo tra immigrazione e spazzatura (“l’Italia come una discarica”).

Sicché l’impudenza banalizzante gemma purissima ignoranza, che ci rende tutti sempre più intellettualmente volgari. E al tempo stesso ossessionati da falsi problemi che oscurano quelli veri. Prendiamo la febbre sicuritaria incentivata dal dibattito sulla giustizia fai da te. Una psicosi che rivela – con l’ossessione indotta dei ladri e degli scippatori che ti portano via la roba e a cui bisogna sparare – una regressione alla mentalità del Mastro Don Gesualdo. Che poi è l’orizzonte culturale asfittico dei nuovi politici. I quali, non studiando e ricercando consenso un tanto al chilo, non hanno dato modo che li si avvisasse che l’Information Technology rende sempre meno importante il ruolo del denaro fisico, sostituito sempre di più da pagamenti elettronici. Sicché le rapine in banca non sono più di moda e al loro posto crescono i crimini informatici. Ma le nuove leve non se ne accorgono, visto che in fondo sono la tardiva reincarnazione degli aristocratici dell’Ancien régime, “che non avevano imparato niente, non avevano dimenticato niente”. Tanto che l’arrivo sulla scena degli uni e il ritorno degli altri ha un solo nome: restaurazione.