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Partecipate pubbliche, Cantone: “Nel nuovo decreto saltati freni a poltronificio. Riforma depotenziata, troppe deroghe”

Il presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione boccia la nuova versione del provvedimento, riscritto dopo lo stop della Consulta. "Uno degli aspetti qualificanti della riforma", l'obbligo dell'amministratore unico, "oggettivamente è venuto meno". E c'è una "delega in bianco alle Regioni", i cui presidenti possono decidere quali società salvare

Addio freni al “poltronificio“. E addio a un serio sfoltimento delle 8mila partecipate di Stato ed enti locali. Il nuovo decreto attuativo della riforma Madia sulla materia, modificato dal governo dopo la bocciatura da parte della Consulta, è talmente annacquato che “sostanzialmente è una delega in bianco” a presidenza del Consiglio e governatori regionali, i quali potranno discrezionalmente scegliere quali società salvare dalla stretta. A mettere il dito nella piaga è stato il presidente dell’Anac, Raffaele Cantone, in audizione davanti alla commissione Bilancio alla Camera. Tutto considerato, per il numero uno dell’Anac la valutazione sul provvedimento correttivo “non è entusiasmante, visto che si trattava di una riforma attesa da molto tempo”.

Nel decreto bis “uno degli aspetti qualificanti della riforma oggettivamente è venuto meno“, ha sottolineato parlando della regola dell’amministratore unico. Nella versione originaria erano previste deroghe solo in base a criteri “uguali per tutti”, da stabilire con un Dpcm: un freno al “poltronificio”, appunto. Ora invece, ha ricordato Cantone, decide “l’assemblea, con delibera”. In pratica “l’assemblea può fare quello che vuole“.

Altre criticità, secondo il presidente dell’Anticorruzione, riguardano la possibilità di escludere alcune partecipate dall’applicazione delle nuove regole. Un potere che il correttivo estende anche alle Regioni. Il testo unico, ha ricordato il presidente, “nasce dall’idea che ci debba essere una regolamentazione complessiva, valide per tutte le società partecipate”. Invece ora “il rischio vero” è “che non si prevede cosa si applica alle società che vengono escluse dal perimetro” della riforma. Così facendo si crea una sorta di “limbo che è diventato quasi un purgatorio dal punto di vista della quantità”, fonte di “ulteriori contenziosi“. Per questo “sarebbe auspicabile dire cosa fa il mondo escluso, che non è il mondo di mezzo ma mezzo mondo”.

“Credo ci siano eccessive retromarce nell’impianto generale”, ha riassunto il magistrato. “Molte novità che erano state salutate con particolare favore, oggi sono in parte attenuate con il decreto correttivo, che risente della necessità di dovere ottenere l’intesa con la Conferenza delle regioni”. “L’impianto desta non poche perplessità” perché le deroghe “sono talmente ampie che il decreto si applica a una maggioranza ormai risicata delle società pubbliche”. Questo peraltro non per colpa della Consulta, la cui sentenza è stata interpretata in modo “eccessivamente rigoroso”.