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Foreign fighters, è davvero possibile fermarli?

Sono passati due anni dal feroce atto di terrorismo dei fratelli Kouachi che ha registrato la morte dei giornalisti della rivista Charlie Hebdo, di un poliziotto e dall’attacco al supermercato da parte di Amedy Coulibaly. Purtroppo le azioni di morte non si sono fermate sino ad arrivare alla strage del Reina ad Istanbul passando per quelle di Parigi, Bruxelles, Nizza, Siria, Iraq e altre ancora sempre rivendicate dall’Isis.

Nonostante le sconfitte militari, il califfato di Abu Bakr al -Baghdadi sembra ancora capace di imporre attraverso azioni terroristiche la sua presenza di morte. Per questo le considerazioni del capo della polizia a proposito di possibili azioni dell’Isis in Italia, necessariamente generiche, esprimono una preoccupazione del tutto fondata. Allo stesso tempo ci domandiamo in che modo si stia affrontando il problema del ritorno dei foreign fighter che, secondo le statistiche più accreditate, si contano nel numero delle migliaia: di questi, una parte insignificante riguarda il nostro Paese.

Cosa fanno una volta tornati a casa? Un problema che riguarda molti stati europei e medio orientali che hanno fatto registrare una massiccia fuoriuscita di giovani per andare a combattere in Siria nelle file dell’Isis. Questi giovani che ritornano, spesso disgustati e inorriditi dalla loro esperienza nello stato islamico, non per questo hanno abbandonato la speranza di poter continuare in qualche modo la loro missione di contrasto verso la civiltà occidentale. Quindi continuare a interrogarsi sul perché giovani dai 18 ai 30 anni sono partiti per combattere per la nascita di un califfato e continuano a nutrire questo sogno, credo che faccia parte di una buona strategia per tentare di arginare queste derive, invece di percorrere scorciatoie del tipo poliziesco soltanto.

Queste sono necessarie e gli italiani sembrano capaci di mettere in atto misure preventive, ma non sono sufficienti. Occorre lavorare per una migliore integrazione fra le polizie e studiare, per quello che è possibile, misure di prevenzione partendo dagli errori che sono stati commessi in occasione dei vari atti terroristici. Vi ricordate cosa accadde dopo la strage del Bataclan e la fuga di Salah Abdesalam, uno degli artefici degli atti terroristici di Parigi e l’inadeguatezza della polizia belga?

Inoltre il problema dei foreign fighter di ritorno non può essere un problema che non veda coinvolta la comunità musulmana con un ruolo attivo. In un libro recentemente uscito in Francia, Les Revenants, di David Thomson si analizzano diversi casi giovani che sono tornati in patria. A proposito dei tentativi dello Stato di organizzare luoghi di de- radicalizzazione, è significativa l’esperienza di una giovane partita per la Siria, la quale esprime, nonostante ormai si trova in patria, le stesse difficoltà dei maschi ad abbandonare l’ideologia jihadista, e dichiara l’inconsistenza dei programmi di de-radicalizzazione messi in atto dallo Stato francese.

La critica verte sull’atmosfera che regna in questi corsi. Si presentano, dice questa giovane, come sedute per alcolisti. La voce falsamente suadente ci rivolge domande, continua, come se fossimo perdute e fosse tutta colpa del mio rapporto con la famiglia. “Mi sento come un topo di laboratorio. Per me la de-radicalizzazione è un neologismo inventato di sana pianta”. Può darsi che questa giovane abbia ragione in questo caso specifico, ma è altrettanto certo che da questo difficile processo, la comunità musulmana non può stare fuori, così come deve collaborare e in parte già lo fa, per prevenire atti che possono sfociare in altro terrorismo. La problematica è terribilmente complessa.

Sembra sfuggire da tutte le parti, è difficile costruire un modello che rappresenti il perché tanti giovani hanno scelto di andare a combattere in Siria per l’affermazione di uno stato islamico e perché molti di essi sono disposti a sacrificare la propria vita e quella degli altri.