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Banche d’affari, nei report pre 4 dicembre meno catastrofismo che sui giornali. “Ma analisti sono impreparati sulla politica”

Da Goldman Sachs a Credit Suisse, nelle loro previsioni sul post referendum i big si sono spesso distinti per equilibrio. Tuttavia i dubbi sul loro operato non mancano. Lo storico Giulio Sapelli: "Confondono il numero di esecutivi con la mancanza di continuità delle politiche. Il livello culturale medio si è drammaticamente ridimensionato". Il responsabile investimenti di una sgr milanese. “Evidente il rischio di conflitti di interesse". La difesa di un'analista: "Ingerenze indebite? Quasi mai"

Questa volta tocca difendere le banche d’affari. In una campagna referendaria in cui non sono mancati commenti e dichiarazioni apocalittici, i report usciti degli uffici studi dei big della finanza internazionale si sono spesso distinti per sobrietà ed equilibrio. Esattamente quello che è mancato su molta stampa italiana e internazionale. Partiamo dalla banca d’affari per eccellenza, Goldman Sachs. Una settimana prima del voto per bocca del suo esperto Bobby Vedral spiegava: “La vittoria del no non sarebbe positiva per i mercati ma questa negatività, che a mio giudizio potrebbe essere ingiustificata, è già in larga parte incorporata nei prezzi di azioniobbligazioni”. A urne ancora calde, poi, Goldman Sachs scrive in un report datato 5 dicembre che “la bocciatura della riforma non costituisce un trauma istituzionale, infatti l’architettura istituzionale del paese semplicemente rimane quella in vigore dal 1948”.

Nemmeno Barclays, Credit Suisse e S&P hanno fatto catastrofismo – Gli analisti della banca americana aggiungono di attendersi un impatto contenuto su spread e titoli di Stato mentre qualche preoccupazione in più viene espressa sulla situazione delle banche. Nel report si indica anche come scenario più probabile un governo di transizione che traghetti il paese fino alle elezioni presumibilmente a inizio 2018. Non molto diversi i toni della banca inglese Barclays. Il 28 novembre i suoi analisti prefigurano lo scenario in caso di vittoria del no con alta partecipazione al voto. Ci attendiamo, scrivono, dimissioni di Renzi, nuovo incarico da parte di Sergio Mattarella forse a Pier Carlo Padoan o Pietro Grasso, riforma della legge elettorale, elezioni nella seconda parte del 2017. Quanto alla reazione di mercati, “spread in aumento nelle prime ore di contrattazione ma con una successiva inversione di rotta grazie anche ad un possibile intervento della Bce. Non prevediamo un impatto automatico sul rating del paese”. Tutto qui.

Due settimane prima del voto il capo economista per il Sud Europa di Credit Suisse Giovanni Zanni affermava: “È eccessivo parlare di choc dei mercati (in caso di vittoria del no, ndr). Non credo siamo di fronte a un rischio sistemico. Certo è probabile che ci sarà un ulteriore allargamento, ma non esagerato, del nostro spread sul bund e anche le banche ne risentiranno. Però non sarà una situazione che non si possa gestire: siamo in una fase di ripresa economica seppure moderata e c’è l’ombrello Bce”. Un altro colosso come Hsbc a fine settembre mostrava qualche preoccupazione in più soprattutto a causa del clima di incertezza politica innescato dalle possibili dimissioni di Renzi. Tuttavia anche in questo report non trovavano posto scenari catastrofistici. Molto misurate anche le valutazioni dell’agenzia di rating Standard&Poor’s che a metà novembre spiegava che il no “non comporta effetti significativi sul merito di credito dell’Italia, a meno che non porti a uno stop alle riforme strutturali”. Se al referendum vincesse il no, affermava Jean-Michel Six, uno dei principali economisti dell’agenzia,”avremo sicuramente un po’ di turbolenza sui mercati”, ma adesso “abbiamo sopra la testa l’ombrello nucleare” del programma anti spread della Bce. Un po’ più negativa la visione dell’altro big del rating, l’agenzia Moody’s che infatti mercoledì ha cambiato il suo outlook sull’Italia da stabile a negativo. Una mossa che può preludere a una successiva riduzione del giudizio di rating.

Deutsche Bank e Citigroup sopra le righe – Nessuno ha la sfera di cristallo ma, con il senno di poi, appaiono fuori bersaglio le affermazioni del capo economista di Deutsche Bank David Folkerts-Landau che il 16 novembre sentenziava: “Il mio timore è che più ci si avvicina alla data del referendum, e più l’effetto dell’elezione di Trump si fa sentire, più gli investitori esteri usciranno dall’Italia sino a far esplodere lo spread. Questo scenario di instabilità prefigurerebbe un grave impatto sui settori bancari italiano ed europeo”. Toni un po’ più “colorati” erano stati usati anche da Citigroup, che quest’estate segnalava il rischio di interruzione del processo di riforme in un paese dove “per la prima volta le cose stanno cambiando rapidamente”. La banca americana proponeva anche un paragone tra Matteo Renzi e Mario Segni, la stella della scena politica dei primi anni ’90 eclissatasi rapidamente dopo il fallimento del referendum sul sistema elettorale del 1999. Va dato atto a Citigroup che almeno la prima parte del copione è stata sinora rispettata.

Le analisi politiche tagliate con l’accetta e il rischio di conflitti di interesse – Il livello dell’analisi politica, in ogni caso, può variare molto a seconda di chi lo emette e della composizione del team che lo concepisce. Nel 2013 provocò scalpore un report della banca d’affari statunitense JP Morgan n in cui gli analisti spiegavano come le Costituzioni dei paesi del Sud Europa nate dalla lotta contro i fascismi fossero “fortemente influenzate da idee socialiste. Una tara originaria che impediva ai governi di Italia, Spagna, Grecia e Portogallo  di realizzare le riforme che sarebbero servite per superare la crisi economica. Gli analisti si dolevano in particolare delle eccessive tutele del diritto di sciopero e dei diritti dei lavoratori. In generale gli addetti ai lavori non sembrano dare a questi report un peso eccessivo e li maneggiano con un atteggiamento piuttosto disincantato. Il responsabile degli investimenti di una sgr milanese spiega ad esempio: “Siamo sempre consapevoli del possibile rischio di conflitti di interesse. A volte, questi studi accompagnano un deal a cui sta lavorando la banca che li diffonde e forniscono una visione favorevole all’operazione”.

“Raro che i ricercatori siano specializzati in politica. Ma i report non si basano solo su giornali e colloqui informali” – Analisi politiche da parte delle banche sono piuttosto rare, continua l’investitore, e di solito sono prodotte da altri soggetti, “penso alle agenzie di rating o al Fondo monetario internazionale. Noto anche che finché l’Unione monetaria europea era percepita come una struttura solida e irreversibile analisi di questo tipo sui singoli paesi membri erano pressoché sparite. Sono ricomparse solo negli ultimi anni quando la struttura dell’euro ha evidenziato le sue criticità”. Un’importante analista finanziaria di una grande banca internazionale, che preferisce a sua volta restare anonima, spezza alcune lance a favore dei colleghi. “Le valutazioni politiche sono piuttosto rare e di solito attengono a provvedimenti  che possono avere un chiaro impatto sull’economia o la finanze pubbliche”. “È vero”, spiega, che “raramente i team di ricerca sono specializzati in politica e spesso è la qualità del singolo analista, e dei suoi contatti, a fare la differenza. Tuttavia non si tratta mai di rapporti basati sulla semplice lettura dei giornali o su conversazioni informali”. Chi redige gli studi, aggiunge, “ha ad esempio accesso ai database che riportano i dati di tutti i sondaggi realizzati su temi e appuntamenti politici e svolge incontri periodici con rappresentanti della maggioranza di governo e dell’opposizione dei paesi su cui esprime le poi valutazioni”. “Va anche detto”, conclude, “che quando gli investitori utilizzano i report per le loro decisioni tendono a semplificarne ulteriormente i messaggi”.

“Pressioni? Al massimo la richiesta di smussare i toni” – Parlando della sua esperienza diretta, un economista che in passato ha prodotto report per uno dei colossi del credito europeo precisa che “quasi sempre gli analisti scrivono quello che vogliono senza che ci siano indebite ingerenze di sorta. “In alcuni rari casi”, ammette, “mi è capitato di subire una qualche pressione ma la richiesta era quella di smussare i toni, di non infierire troppo”. Inoltre, continua, “quando esiste la possibilità di un conflitto di interesse questo è specificato nel disclaimer che accompagna il documento”. Lo storico dell’economia Giulio Sapelli fa notare come spesso per orientarsi gli analisti delle banche d’affari si rivolgano ai più noti esperti locali. Però, mette in guardia Sapelli, la scelta ricade quasi sempre su esponenti dell’accademia ufficiale, su opinion maker che tendono a fornire visioni molto conformiste.

La confusione tra numero di governi e mancanza di continuità delle politiche economiche -Un tipico errore di chi guarda la politica italiana senza conoscerla bene è quello di confondere il numero di governi con la mancanza di continuità nelle politiche economiche. “E’ vero che si sono avvicendati più di 60 esecutivi”, rimarca Sapelli, “ma questo accadeva per l’assestamento di equilibri di potere all’interno della stessa maggioranza. L’impostazione politica di fondo è sempre rimasta la stessa, per più di 40 anni”. Lo storico esprime poi una considerazione amara sulle capacità di analisi di certe dinamiche da parte di chi si occupa di finanza. “Non esistono più personaggi dello spessore del barone Rothschild, di Andrè Meyer (il genio della finanza della banca d’affari parigina Lazard e grande collezionista d’arte, ndr) o di Raffaele Mattioli, banchiere umanista della Comit. In generale il livello culturale medio di chi opera nel mondo della finanza si è drammaticamente ridotto e questo vale in qualsiasi casella dell’organigramma. Una condizione che alla lunga finisce per nuocere anche alla stessa finanza”. Questo accade, conclude Sapelli, “anche perché la formazione degli economisti  è ormai improntata solo ai principi dell’economia neo classica”.