Scuola

Università, noi ricercatori cambiamo vita ogni sei mesi. Fino a quando?

Di Duilio Farina

La ricerca scientifica funziona così. Si lavora in un Istituto/Università per qualche mese o per qualche anno dopodiché si deve andar via. Gli stimoli devono rimanere alti, non bisogna adagiarsi sui risultati ottenuti, bisogna sempre dimostrare quanto si vale e non c’è modo migliore che quello di ricominciare tutto da capo, in un posto nuovo in cui nessuno sa chi sei. E’ un’esperienza che ho già vissuto diverse volte cambiando città e paese.

All’inizio era indubbiamente stimolante: persone nuove, culture nuove, lingue diverse. Ad un certo punto però viene naturale porsi una domanda: per quanto si vuole continuare? Conosco persone, un po’ più grandi di me, che hanno girato paesi e continenti, per loro l’Italia rappresenta solo una tappa temporanea. Non so se si “fermeranno” mai, non so se ne avranno mai la possibilità e non so neanche se lo vogliano. Ho la sensazione però che parecchie di queste persone semplicemente non abbiano scelta, forse sono solo entrate nel vortice infinito dei contratti da PostDoc e non ne possono più uscire.

Dopotutto una persona che ha alle spalle anni di ricerca non è appetibile per un’azienda privata, spesso è troppo specializzata e richiederebbe comunque un periodo di formazione. Molto meglio assumere un neolaureato. E dunque? Proseguire la ricerca scientifica all’infinito, ecco la soluzione. Portandosi dietro il dubbio costante di non sapere se si riuscirà a costruire qualcosa con un’altra persona o se si riuscirà mai a possedere una casa propria anziché vivere eternamente in affitto. Sentendosi su internet con i vecchi cari amici conosciuti nelle vite precedenti fino a quando, inevitabilmente, la distanza non farà il suo effetto e anche l’amicizia cederà il posto al ricordo. Dovendo convivere con una domanda costante che rimbomba nella propria testa: quale sarà la prossima meta? What’s next?

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