Economia

Liberismo, l’Fmi cambia verso: “Austerità e libero movimento dei capitali fanno crescere le disuguaglianze”

Uno studio di tre economisti dell'istituzione di Washington arriva alla conclusione che i pilastri del libero mercato non contribuiscono in modo chiaro alla crescita. In compenso hanno diverse controindicazioni. Vale anche per il taglio del debito pubblico, se ottenuto alzando le tasse o riducendo gli investimenti pubblici

Strano ma vero. Due dogmi del pensiero liberista, ridotto ruolo dello Stato e azzeramento delle barriere ai movimenti di capitale, finiscono sotto accusa da parte di tre economisti di primo piano del Fondo monetario internazionale. Lo studio, emblematico fin dal titolo – Neoliberalism: oversold? – non rappresenta la posizione ufficiale del Fmi. E’ però un ulteriore segnale di come alcuni aspetti del pensiero economico dominante dagli anni ’80 in poi vengano ormai messi in discussione anche nelle organizzazioni che più li avevano difesi in passato. Gli autori dello studio sono Jonathan Ostry, vicedirettore del dipartimento ricerche del Fondo, Prakash Loungani, responsabile di divisione e l’economista Davide Furceri.

I tre economisti premettono che alcuni successi ottenuti grazie a politiche neoliberiste paiono innegabili. In particolare lo sviluppo del commercio globale ha contribuito a salvare milioni di persone dalla povertà. Poi però iniziano i distinguo. In particolare il documento si concentra su due aspetti: la liberalizzazione dei movimenti di capitale e le politiche di austerità. E’ difficile, si legge, stabilire un effetto positivo sulla crescita economica di questi due punti dell’agenda neoliberista. Sono invece piuttosto evidenti le conseguenze in termini di aumento delle disuguaglianze che finisce per penalizzare la crescita economica.

Gli investimenti diretti sono benefici solo se di lungo periodo – Sul fronte della totale apertura dei movimenti di capitale lo studio spiega come nella teoria appaia tutto semplice e benefico. Nella pratica però le cose risultano molto più complesse e controverse. Occorre quindi distinguere a seconda del tipo di denaro che si muove da un paese all’altro. Gli investimenti diretti provenienti dall’estero che abitualmente comportano anche trasferimenti di tecnologie e competenze hanno effetti positivi. Il denaro più speculativo, il cosiddetto “hot money” mosso a volte in pochi istanti da banche e fondi, ha invece effetti molto discutibili in termini di sostegno allo sviluppo economico. E’ anzi chiaramente alla base della volatilità e dell’incremento delle crisi finanziarie nelle economie interessate dal fenomeno.

In un caso su 5 l’aumento dei flussi di capitale ha prodotto disuguaglianze – Dal 1980 si sono verificate 150 situazioni di aumento di flussi di capitale verso 50 paesi emergenti. In un caso su 5 questo ha generato una crisi che ha spesso prodotto, tra l’altro, una divaricazione dei redditi. In alcuni casi i controlli sui capitali possono essere l’unica opzione a disposizione dei governi per arginare questi effetti collaterali e, come tali, non dovrebbero essere sempre demonizzati. Il rapporto cita e dà credito alle considerazioni dell’ economista di Harvard Dani Rodrik, da sempre critico verso alcuni aspetti della globalizzazione. Secondo Rodrik crisi finanziarie e contraccolpi alle economie sono conseguenze imprescindibili e non marginali della liberalizzazioni dei movimenti di capitali.

Sì alla responsabilità fiscale, no al taglio del debito a tutti i costi – Per quel che concerne il ruolo e le dimensioni dello Stato in economia le conclusioni dello studio altrettanto destabilizzanti rispetto ad alcuni punti fermi del pensiero neoliberista. Anche qui gli economisti del fondo iniziano con cautela, spiegando che un debito eccessivo è certamente negativo per la crescita. Aggiungono che alcuni paesi, tra cui quelli del Sud Europa, non hanno effettivamente alternative a una sua riduzione. Il fatto che alcuni paesi debbano ridurre il loro debito non significa però che questa sia la scelta migliore anche per gli altri. Solitamente i mercati danno credito, in tutti i sensi, a paesi che hanno una tradizione di responsabilità fiscale e, entro certi limiti, a prescindere dal loro livello di indebitamento. La riduzione del debito si ottiene principalmente alzando le tasse e/o riducendo spesa e investimenti pubblici con impatti negativi sulla crescita economica.

L’attacco alla teoria della “austerità espansiva” – Non sempre questa è la strada giusta da seguire. In alcuni casi risulta preferibile sopportare i costi di un debito relativamente elevato. Lo studio Fmi attacca frontalmente la teoria dell’austerità espansiva propugnata dall’economista di Harvard Alberto Alesina e sposata dall’ex presidente della Banca centrale europea Jean Claude Trichet. Secondo questa teoria le strette fiscali producono un effetto positivo sulla fiducia di imprese private e investitori che compensa le conseguenze dei tagli. Alla prova dei fatti le cose vanno però diversamente: un’austerità che produce espansione nella pratica non esiste. Quasi sempre le strette fiscali hanno provocato aumenti della disoccupazione e delle diseguaglianze frenando l’economia. Gli effetti benefici dei tagli alla spesa rischiano spesso di essere sopravvalutati. Anche perché esistono ormai forti evidenze del fatto che un incremento delle disparità frena la crescita economica e ne pregiudica la sostenibilità nel tempo. I politici dovrebbero quindi dedicare maggiori risorse alle politiche redistributive che hanno peraltro dimostrato di non avere effetti penalizzanti sull’economia. In conclusione una stoccatina dal profondo significato simbolico.

Il caso del Cile di Pinochet – Si prende in esame il caso del Cile dove l’11 settembre 1973 il dittatore Augusto Pinochet salì al potere con un colpo di Stato e l’uccisione del presidente marxista Salvador Allende. Secondo alcuni economisti la giunta militare portò il paese su un sentiero di duraturo sviluppo grazie all’adozione delle ricette economiche liberiste propugnate dal premio Nobel Milton Friedman. In realtà, rimarca lo studio, sembra più corretta l’interpretazione di Joseph Stiglitz secondo cui il Cile è un esempio dei successi che si possono ottenere combinando mercato e regolamentazione, come dimostrano i controlli ai movimenti di capitale imposti nei primi anni della svolta.

I ripensamenti sulla flessibilità del lavoro e l’influsso di Blanchard – Non è la prima volta che dal dipartimento economico del Fondo escono studi che sollevano dubbi sulla reale efficacia di alcune politiche neoliberiste e su alcune strategie seguite dalla stessa organizzazione. Un capitolo del World Economic Outlook 2015, che rappresenta la posizione ufficiale dell’organizzazione, sottolineava la difficoltà nel dimostrare una qualche credibile relazione tra maggiore flessibilità del mercato del lavoro e incremento della crescita economica. Sempre l’anno scorso un “paper di discussione”, ossia un documento destinato a fornire elementi per il dibattito economico, sottolineava invece l’importanza degli investimenti pubblici nella promozione della crescita economica. Probabilmente continua a farsi sentire l’influsso dell’autorevole economista francese Olivier Blanchard. Capo economista fino allo scorso autunno, Blanchard ha ridato lustro alla produzione accademica dell’Fmi e ha messo in discussione alcune scelte adottate dal Fondo a cominciare dal caso greco. Sul piano teorico la svolta è ormai piuttosto evidente. Bisognerà attendere ancora qualche tempo perché si traduca pienamente in scelte operative.