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Ttip: caro Feltri, contro gli investitori i governi non vincono mai

La campagna Stop Ttip Italia risponde al post di Stefano Feltri, vicedirettore del Fatto Quotidiano, che ha considerato «ridicole prese di posizione ideologiche» le richieste della società civile di escludere qualsiasi meccanismo di risoluzione delle controversie fra investitore e Stato (Isds/Ics) nel Ttip.

Stefano Feltri mette al centro una questione spinosa, l’Isds e il rischio di non imparzialità dei tribunali ordinari. Ci sono fonti autorevoli però che lo smentiscono: Unctad (la Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo) nel suo rapporto 2015 (pag. 116) dopo l’analisi dei dati disaggregati mostra come sia nei giudizi sulla competenza del tribunale, sia in quelli in cui si decide sul merito, le imprese vincano rispettivamente nel 72 e nel 60% dei casi. Vale la pena precisare che i governi non vincono mai davanti ad un arbitrato commerciale: al massimo non perdono, dato che solo l’investitore può sporgere denuncia. Lo Stato vestirà sempre e comunque i panni dell’imputato, pagando, in ogni caso, ingenti spese legali.

Sempre secondo l’Unctad i tribunali per gli investimenti giudicano i casi dalla prospettiva del diritto commerciale, ignorando altri aspetti come i diritti umani e la tutela ambientale. A tutt’oggi manca la possibilità di appellarsi alle sentenze, e spesso non sono resi noti nemmeno gli importi del risarcimento. Gli Stati dell’Ue hanno dovuto pagare 3 miliardi di euro alle imprese private, ma questi sono soltanto i dati relativi a 14 dei 127 processi che gli Stati hanno dovuto subire dal ’94 a oggi. I dettagli, infatti, si conoscono unicamente per questo 11% dei 127 casi censiti, mentre dati più generici arrivano a mapparne il 48%, cioè 62, in cui le aziende rivendicano dal pubblico crediti per un totale di 30 miliardi di euro. Degli altri non si sa niente.

Tutto questo si inserisce in un clima di poca trasparenza: il negoziato, infatti, è proseguito per anni sotto traccia e solo dietro alle pressioni della società civile e dell’Ombudsman europeo O’Reilly (novembre 2014) la Commissione ha cominciato a pubblicare le sue proposte testuali e alcuni testi negoziali. La scarsa trasparenza è riscontrabile anche nella tardiva apertura di una sala di lettura in Italia, avvenuta solo dopo gli sforzi della Campagna Stop Ttip. Tuttavia, questa misura è ancora troppo lontana dal soddisfare il pieno diritto all’informazione dell’opinione pubblica.

Se Stefano Feltri avesse letto i testi pubblicati capirebbe quanto possano incidere meccanismi come l’Isds nell’abbassare gli standard: nel capitolo delle misure sanitarie e fitosanitarie (Sps) la Commissione europea indica come riferimento ultimo il Codex Alimentarius, organismo che setta standard meno rigidi dell’europea Efsa, l’autorità per la sicurezza alimentare. Questo vuol dire che se un governo dovesse adottare standard più stringenti, per esempio sul residuo massimo di pesticida in un piatto, un’impresa potrebbe fare causa allo Stato in questione per “distorsione del mercato”. Fantascienza? Se si approfondisse meglio come funzionano ambiti di questo tipo, magari si capirebbe come l’Unione Europea dovette pagare centinaia di milioni di dollari in ritorsioni commerciali dagli Stati Uniti per aver impedito l’entrata di carni agli ormoni dalla fine degli anni Novanta. E questo perché l’organismo di riferimento degli standard per il capitolo Sps della Wto era proprio il Codex, che consente l’uso di ormoni della crescita negli allevamenti. Ogni politica più restrittiva quindi sarebbe considerata distorsiva.

Entrando più nello specifico, si nota come nel documento in cui Stati Uniti e Unione europea confrontano le rispettive posizioni sull’Sps, siano presenti anche le condizioni per l’importazione di prodotti biotech. Invece che organismi geneticamente modificati, vengono chiamati “moderne tecniche di agricoltura”, ma non vi sono dubbi sull’oggetto della definizione. Nei testi negoziali, infatti, la posizione statunitense – non contrastata dall’Unione europea – è questa: «Sviluppare un approccio o una serie di approcci per gestire la presenza di basso livello» di colture geneticamente modificate «così da ridurre le interruzioni non necessarie del commercio».

La presenza di basso livello indica una quantità di piante o prodotti ogm approvata in un Paese, ma non nel Paese importatore. Per smussare queste differenze, gli Stati Uniti propongono che il Ttip istituisca un gruppo di lavoro sul commercio di prodotti biotech, presieduto da rappresentanti delle agenzie commerciali Usa e Ue. Il team lavorerà come punto di contatto tra le due sponde dell’Atlantico, con l’obiettivo di «risolvere le relative preoccupazioni» e facilitare lo scambio di informazioni in materia di leggi, regolamenti o politiche. Non solo, ma all’Ue viene richiesto di aderire alla Global Low Presence Initiative, un’iniziativa sostenuta dagli americani volta ad ottenere l’accettazione in tutto il mondo delle esportazioni agricole contenenti tracce di organismi geneticamente modificati. Ciascuna parte dovrà anche fornire all’altra le informazioni relative alla natura e la frequenza dei controlli sulle importazioni. Gli Usa vogliono anche la certezza che l’Unione «metta sul mercato e utilizzi nell’intero territorio» i prodotti senza ulteriori autorizzazioni.

Il fatto che non sia evidenziata una posizione europea di chiusura sulla questione lascia ancora aperte diverse possibilità.

Ritornando alle questioni dell’arbitrato, ci sono altri aspetti che Feltri non cita. Ad esempio il fatto che un comune cittadino è obbligato a passare dai tribunali ordinari prima di afferire alle Corti internazionali (come quella di Giustizia) per far valere un proprio diritto, magari proprio contro un presunto abuso di potere di un’istituzione. E che uno Stato non ha lo stesso dispositivo efficiente per denunciare imprese che non rispettano i diritti umani. Va inoltre sottolineato che il sistema dell’arbitrato è in forte rilettura negli ultimi anni, proprio a partire dallo stimolo proveniente dai Paesi Brics. Il vicedirettore dovrebbe sapere che Brasile, India e Sudafrica stanno proponendo nuove forme di arbitrato nei BITs (gli accordi bilaterali di liberalizzazione sugli investimenti). Quindi la questione cinese non regge, perché non tiene conto dei diversi profili di arbitrato che sono in campo. Come fa a dire il vicedirettore Feltri che l’Isds per come viene proposto nel Ttip è la forma migliore e più tutelante?

Tra le proposte di riforma, c’è quella della Commissione Europea di una Corte sugli investimenti pubblica dove rimangono forti criticità come la possibilità per gli investitori stranieri di aggirare i tribunali convenzionali e scegliere l’arbitrato, guadagnando (tra l’altro) un vantaggio competitivo nei confronti delle imprese locali. Nel secondo grado di giudizio qui previsto, il giudice non sarebbe vincolato a tenere in conto eventuali sentenze precedenti di tribunali nazionali.

Secondo il parere del Deutscher Richterbund (Drb), principale associazione dei magistrati tedeschi, non esiste una base giuridica né vi è la necessità di un tale sistema di risoluzione delle controversie tra investitori e Stati nel Ttip. L’ipotesi di non imparzialità dei giudici ordinari è, per i magistrati tedeschi, priva di basi fattuali. Qualora i partner negoziali avessero individuato debolezze nel sistema giudiziario di uno o più Stati membri, queste lacune dovrebbero essere sollevate davanti ai legislatori nazionali e chiaramente definite. La creazione di tribunali speciali per determinati gruppi di contendenti non sarebbe il modo corretto di procedere. Inoltre, l’associazione invita i legislatori tedeschi e comunitari a frenare in modo significativo il ricorso all’arbitrato nel quadro della tutela degli investitori internazionali. Se una decisione del tribunale per gli investimenti dovesse violare il diritto dell’Unione europea, essa non potrebbe essere oggetto di una procedura di infrazione, né potrebbe dar luogo a richieste di risarcimento da parte di uno o più Stati membri.

Di conseguenza, un Isds (o la sua riformata Ics) ha l’effetto di privare i tribunali degli Stati membri dei loro poteri in relazione alla interpretazione ed applicazione del diritto dell’Unione europea. Allo stesso modo, impedirebbe alla Corte europea di Giustizia di esercitare pienamente i suoi poteri in relazione alle corti nazionali e, di conseguenza, altererebbe il carattere essenziale dei poteri che i Trattati conferiscono alle istituzioni dell’Unione europea e agli Stati membri. Poteri indispensabili alla conservazione della natura stessa del diritto dell’Unione europea. Preoccupazioni così vive che persino il Parlamento Europeo si è dovuto esprimere a fine 2015 chiedendo l’esclusione dalla possibile denuncia davanti ad arbitrati delle politiche di lotta al cambiamento climatico derivanti dall’Accordo Onu di Parigi.