Mafie

Stefano Parisi, analfabeta in lotta alla mafia candidato sindaco di Milano

Stefano Parisi riporta all’età della pietra l’antimafia milanese: “La mafia non va stroncata con la retorica ma con un intervento deciso delle forze dell’ordine”, ha detto il candidato sindaco del centrodestra in un dibattito pubblico ieri sera, 17 maggio. Tema dello scontro, la Commissione antimafia del Comune di Milano, che l’avversario di centrosinistra Giuseppe Sala vuole mantenere, mentre per Parisi “significa poco”.

Naturalmente le Commissioni antimafia possono funzionare o meno. Molto dipende proprio dal reale sostegno politico che hanno intorno. Negli ultimi anni, dalla parte politica di Parisi questo sostegno è stato pari a zero o è andato addirittura sotto zero, come quando, nell’era di Letizia Moratti (di cui Sala fu city manager, tanto per stare allegri), il centrodestra scatenò una durissima battaglia, alla fine vincente, per soffocarne una nella culla. La Commissione comunale antimafia, infatti vide la luce solo con la successiva amministrazione Pisapia. Il suo presidente, David Gentili (Pd), replica rivendicando diversi risultati: “Milano è il primo Comune in Italia a combattere il riciclaggio secondo la legge 231 del 2007 e le segnalazioni sono per un valore superiore ai 100 milioni; è la prima città ad applicare il whistleblowing; ha nove sportelli antiracket e antiusura; ha un codice etico per le società sportive, per tutelarle da interessi mafiosi”.

Ma il punto non è solo l’utilità di una Commissione antimafia. Stefano Parisi ha indubbie competenze in altri campi, ma che la mafia vada combattuta solo “con un intervento deciso delle forze dell’ordine” è un’affermazione da analfabeta della materia, che riporta indietro di molti decenni il dibattito sul contrasto a un cancro nazionale che uccide, impone il pizzo, succhia risorse pubbliche, distorce il mercato, trucca le elezioni, condiziona la politica. Anche in Lombardia, anche a Milano. Con complicità, contiguità, connivenze, convenienze così diffuse che neanche la polizia segreta di un regime totalitario riuscirebbe a debellare.

A non pensarla come Parisi sono per primi gli investigatori antimafia. Il generale Carlo Alberto dalla Chiesa era certo un uomo d’azione, ma nei suoi cento giorni a Palermo andava a parlare nelle scuole, semplicemente perché aveva capito, più di trent’anni fa, che la battaglia è politica e culturale. “Non fatevi fagocitare dai ladri del sistema”, anzi, “contestate questo sistema”, diceva alle scuole Don Bosco il 29 giugno 1982 il generale-prefetto, che certo non era un pericoloso rivoluzionario (ma a Palermo di fatto lo era). E aggiungeva che loro, i ragazzi, i familiari, avrebbero dovuto essere le sue “forze dell’ordine”. Appunto.

Agli studenti del Gonzaga, il 2 giugno dello stesso anno, dalla Chiesa confessava: “Penso che la parte migliore della mia giornata sia quella spesa, al termine del mio primo mese di presenza in Palermo, parlando a dei ragazzi sani e puliti come voi” (Carlo Alberto dalla Chiesa, “In nome del popolo italiano”, autobiografia a cura di Nando dalla Chiesa, Rizzoli 1997). Questo andava dicendo il generale dei carabinieri che aveva contribuito in modo determinante e senza dubbio energico alla sconfitta delle Brigate rosse. E che poi però nella lotta alla mafia fu lasciato solo dalla politica e finì ammazzato (vede, candidato Parisi, che le forze dell’ordine da sole non bastano?).

Giovanni Falcone, tanto celebrato da morto quanto osteggiato in vita (vede, candidato Parisi, che le forze dell’ordine da sole non bastano?), scriveva: “La mafia, lo ripeto ancora una volta, non è un cancro proliferato su un tessuto sano. Vive in perfetta simbiosi con la miriade di protettori, complici, informatori, debitori di ogni tipo, grandi e piccoli maestri cantori, gente intimidita o ricattata che appartiene a tutti gli strati della società. Questo è il terreno di coltura di Cosa nostra (…)” (Giovanni Falcone con Marcelle Padovani, “Cose di Cosa nostra”, Rizzoli 1991). Che cosa facciamo, candidato Parisi, li arrestiamo tutti?

Certo, dalla Chiesa e Falcone parlavano della Palermo degli anni Ottanta, non della Milano del 2016. Eppure nella Milano del 2016 – quella che Parisi si candida a governare – molti di quelli che i mafiosi li arrestano – e ne arrestano tanti – vanno a parlare di mafia nelle scuole, nelle sedi di circoli e associazioni, nei consigli comunali dell’hinterland. Perché sanno di poter prendere molti pesci, ma di non poter prosciugare, solo con indagini e manette, lo stagno in cui questi pesci nuotano. Alcuni di loro hanno fatto la storia dell’antimafia a Milano, magistrati come Alberto Nobili, Armando Spataro, Maurizio Romanelli. Altri si sono occupati delle inchieste più recenti, come Giuseppe Gennari e Salvatore Bellomo (Crimine-Infinito). Neppure Ilda Boccassini, capo della Direzione distrettuale antimafia milanese, notoriamente schiva nei confronti della stampa, si tira indietro di fronte a platee di studenti universitari che vogliano capire il fenomeno al di là del codice penale. Poi basta citare le attività pubbliche di Gian Carlo Caselli, Nicola Gratteri, Giuseppe Pignatone, Nino Di Matteo… Difficile credere che ricavino notorietà o copie vendute parlando di legalità agli studenti di un istituto tecnico di Cinisello Balsamo o Trezzano sul Naviglio.

Prima di discettare di antimafia, Parisi dovrebbe ricordare almeno qualcuno dei casi che interessarono il suo attuale schieramento sotto il sindaco Moratti. Il consigliere comunale Marco Clemente, che chiacchierava di pizzo e vittime da pestare con un estorsore del clan Flachi (‘ndrangheta milanese, quartiere Bruzzano). Armando Vagliati, in stretto contatto per politica  e affari con il clan Valle-Lampada, ben conoscendone la storia criminale, anzi lamentando una persecuzione giudiziaria nei loro confronti. Il primo non fu neppure indagato, il secondo ne uscì assolto. Per i giudici, le loro condotte erano deprecabili ma non costituivano reato. I due restarono serenamente in consiglio comunale fino a fine mandato. Quello che parlava con l’estorsore fu difeso persino dal sindaco Moratti.

Non è neanche una questione di etichetta, perché le indagini antimafia degli ultimi anni in Lombardia hanno coinvolto anche esponenti del centrosinistra. La differenza, in fatto di lotta alla mafia, la fa la sensibilità di chi governa. E dei partiti a cui deve rendere conto.